La poesia di Sophia de Mello Breyner Andresen (1919-2004) percorre la lingua limpida dei lembi. La passione per la ricerca del linguaggio, in grado di riprendere la potenza originaria e primordiale dell’essere, trova nella sua espressione una esplorazione integra, una sorgiva patina svelata e uno stupore sulle tracce di una epifania rivelata.
La ricerca ontologica del verso tramite la parola intesse la sua chiarificazione e la sua conoscenza mai spuria, come scrive Federico Bertolazzi: «Attraverso la parola, che si esige esatta, questa relazione fondata sul rigore e sull’intransigenza formale si lega alla verità e, chiarendo e rendendo nitido l’asse principale dell’esistenza nel rapporto dell’uomo con il mondo, contribuisce anche alla spiegazione del rapporto dell’uomo con l’uomo. Anzi, configurandosi come un processo scevro da indulgenze, si colloca naturalmente come esempio per gli altri uomini ed esplica in questo modo la sua imprescindibile funzione sociale».
Nata a Oporto, da padre di origini danesi, educata all’avvenimento cristiano (fu anche leader del Movimento Cattolico dell’Università di Lisbona, dove studiò filologia classica, non terminando gli studi) e coinvolta attivamente nella resistenza contro il regime dell’Estado Novo di Salazar, fino a rivestire più tardi un incarico parlamentare nell’Assemblea Costiutuente, sposò il giornalista Francisco Sousa Tavares dal quale ebbe cinque figli, tra cui lo scrittore Miguel Sousa Tavares.
Una delle figure più amate della poesia portoghese contemporanea e della scena culturale di Cadernos de Poesia (1940), collaborò alle riviste “Távola Redonda” e “Árvore” e vinse nel 1999 a Salvador de Bahia il premio Camões, seconda donna dopo la scrittrice brasiliana Rachel de Queiroz.
Nell’insediamento alla presidenza della Associazione Portoghese degli Scrittori, nel giugno del 1973, in un discorso sul valore della letteratura e della poesia, come valore sociale, Sophia de Mello tentava irrimediabilmente di scostarsi dalla dimensione ideologica, come decisiva svestizione da ogni accezione “impegnata”: «è la poesia che mi coinvolge, che mi fa essere nello stare e mi fa stare nell’essere. È la poesia che rende intero il mio stare sulla terra. E perché è il più profondo coinvolgimento dell’uomo nel reale, la poesia è necessariamente politica e fondamento della politica. Perché la poesia cerca il vero stare dell’uomo sulla terra e non può, per questo, alienarsi da quel modo di stare sulla terra che è al politica. Così come cerca la relazione vera dell’uomo con l’albero o con il fiume, il poeta cerca la relazione vera dell’uomo con gli uomini. […] E, proprio perché cerca l’interezza, la poesia è, per sua natura, disalienazione, principio di disalienazione, disalienazione primordiale. Libertà primordiale, giustizia primordiale. Il poeta dice sempre: «Io parlo della prima libertà».
La sostanza della poesia tende a questa integra primordialità, alla relazione tersa e giusta con le cose e fonda realmente la vera rivoluzione prospettica dello sguardo, che fonda e stabilisce «la relazione intera dell’uomo con se stesso, con gli altri, con la vita, con il mondo e con le cose».
Il vento, l’aria, la casa vedono la loro realtà senza veli, in uno splendore di impeto di oceano che instaura un processo di essenzialità pura e vera che scopre la realtà, continuamente, in una presenza che offre, dall’infanzia all’adolescenza, la sua tensione imperitura: «La cosa più antica di cui mi ricordo è una stanza di fronte al mare dentro la quale stava posata in cima di un tavolo una mela enorme e rossa. Dal luccichio del mare e dal rosso della mela si sprigionava una felicità irrifiutabile, nuda e intera. Non era nulla di fantastico, non era nulla d’immaginario: era la propria presenza del reale che io scoprivo. Più tardi l’opera di altri artisti confermò l’obiettività del mio sguardo. In Omero riconobbi questa felicità nuda e intera, questo splendore della presenza delle cose. Anch’io la riconobbi, intensa, attenta e accesa nella pittura di Amadeu de Souza Cardoso. Dire che l’opera d’arte fa parte della cultura è una cosa un po’ scolastica e artificiale. L’opera d’arte fa parte del reale ed è destino, realizzazione, salvazione e vita».
La geografia dell’Algarve, intimità di vento e di mare, selciato battuto di spiagge, celebra la relazione disadorna con l’allegrezza di un mondo intuito all’origine, in un cantico che non cede ai disastri, ma si impone in una celebrazione viva e autentica.
Quando «il fulgore esterno assedia gli orli della penombra», la casa del mare perde la profondità dello sguardo negli spazi vuoti delle dune e delle coste, sui resti delle boe e delle barche.
È nell’Atlantico, pianura di silenzio d’acqua, che si svolge la sua attesa, come la Grecia che unisce e lega la verità ultima, nell’esigenza di giustizia e verità.
Una poesia essenziale che mira all’essenziale e invoca vite segrete e fuggitive, lune vergini e anime sui miraggi, fatte di «salsa esalazione» e di astri.
Il grido puro di Sophia de Mello è il grido delle dita del tempo, di tutti gli angoli del mondo che amano la profondità dell’essere nella «selvaggia esalazione delle onde», nel mare antico, originario, come la pietra che ama essere levigata per splendere: «Odoro gli alberi la terra e il vento / che la primavera colma di profumi / Ma io vi voglio solo e solo vi procuro / La selvaggia esalazione delle onde / In ascesa come un grido puro».
La sua tensione poetica è un continuo tendere all’Infinito, nella domanda come espressione suprema, nell’appartenenza alla realtà, all’essere, all’incontro fisico, corporale di tempo e di spazio, visibili e tangibili nelle sproporzioni e nei panorami flessi.
L’impersonalità, cara a Pessoa, trova in Sophia de Mello, un’altra vertigine che riesce a dire tutto, che compie l’aria poetica che bacia le labbra: «Ascolto la voce salire gli ultimi gradini / ascolto la parola alata impersonale / che riconosco perché non più mia».
Sembra quasi che la spersonalizzazione della parola, l’ubbidienza, il servizio alla realtà, sia l’avvenimento che succede, accade, si impone: «la mia maniera di scrivere fondamentale è molto prossima a questo “succedere”. La poesia mi appare già fatta, emerge, è offerta (o come se fosse offerta). Come un dettato che ascolto e annoto. È possibile che questa maniera sia in parte legata al fatto che, nella mia infanzia, molto prima di saper leggere, mi avessero insegnato a imparare a memoria le poesie. Ho incontrato la poesia prima di sapere che esiste la letteratura. Pensavo che le poesie non fossero scritte, che esistessero di per sé, da sole, che fossero un qualche elemento del mondo naturale, che se ne stessero sospese, che fossero immanenti. E che sarebbe bastato stare quieta, in silenzio e attenta per poterle sentire».
Si spiega in questa memoria pre-esistente, l’accensione profonda dove la sua poesia compie la parabola del suo paradigma assoluto e puro, in cui la presenza del mare converge la mappa delle destinazioni estreme e finali, in cui i notturni giacciono sorpresi come onde che scrutano, le navigazioni solcano le superfici, per placare le inquietudini delle rivolte dello spirito.
È come se il sale possedesse la materia terrena che si oppone alla degradazione metropolitana, che frantuma i frammenti postumi della vita e dei sogni.
Anche la tematica del giardino, analizzata acutamente in un saggio da José Tolentino Mendonça, rappresenta l’enclave che riconcilia la diatriba degli opposti, «specola dalla quale guardare al mondo nutrendo la speranza nell’unità» (F. Bertolazzi).
Nel sua casa di Travessa das Mónicas e nella casa paterna di Oporto, si realizza compiutamente il legame con la memoria che recupera l’ordito del tempo e la scrittura divine orizzontale movimento di tempo, nel rigore caparbio della tenerezza.