La poesia di Maria Luisa Spaziani (1924) è una poesia di lampo chiaro. Lampo che si situa in un processo di assenza e di dolore, ma allo stesso tempo ha il colore dell’arpa, del sussurro.
Un prisma di luce, potremmo definirla, se è consentito mai definire un processo poetico eversivo, che si lega ad epifanie e intuizioni.
Ed ecco che quando si trova dinanzi a un bagliore acceso, come il fuoco della sua creatività primigenia, la creatività, il fare poetico tende a una fusione ultima con i movimenti del cosmo.
Di lei Montale, che soprannominava “La Volpe” e dedicataria de La Bufera, scriveva nei Madrigali privati: <<Dal tempo della tua nascita/ sono in ginocchio, mia volpe>>.
Egli aveva intuito non solo l’origine della sua figura, ma aveva visto nell’intarsio poetico una baluginìo di voce che si fa parola, o meglio ancora, sillaba.
Il sillabare l’universo è la sua meridiana, la sua traiettoria verso l’indicibile.
Maria Luisa Spaziani ha dato voce, quasi laforghianamente, alla luna, lo testimonia non solo una delle sue ultime sillogi La luna è già alta, ma tutto il suo processo poetico che è un canto che alimenta il linguaggio verso riflessione e contemplazione e soprattutto verso la percezione.
Percepire la sostanza delle cose, tra amore e post-amore, significa non solo recuperare il perduto ma vivere in un territorio dove il silenzio diventa rapsodia, prestito e identificazione di immagini.
La luna che <<petrarchizza anche le macerie>> ha nel dettaglio, il richiamo a un dormiveglia vago e alla figurazione dei colori.
L’azzurro soprattutto che, come scrive Cristina Sparagana: a volte inteso nel suo senso rilkiano di levità terrestre e angelicata, a volte anche però aspro colore, non di rado perverso, minaccioso, nella sua tendenziosa castità, quasi un’ombra-stilema che s’intenebra spesso nella notte, tinta “sterrata” ai margini di uno sgomento tutto temporale, un azzurro violento e violentato.”
Nella Spaziani la figurazione cromatica sottende a un moto imperscrutabile: <<I giacinti falciati, calpestati, / violentano di essenze l’azzurro delle sere>> o ancora <<Anche la nebbia impallidisce, il porto / di azzurre vele lungo il buio sangue>>.
Il movimento poetico assomiglia spesso all’intonazione lirica di una preghiera, un alone di domanda, come lasciano trasparire le due raccolte Transito con catene (1977) e Geometria del disordine (1981).
In questo iter poematico la galleria di personaggi ritratti, da Picasso, a Neruda, a Montale stesso sono cadenze di attimi percepiti, smossi, impressi nel solco dell’anima.
Tutta la produzione poetica della Spaziani è una traversata d’oasi, come recita una delle sue gemme più brillanti. La parola, anche quando esce dalle braci o dalle ceneri, dal nulla inquieto, fino allo stridore è una sorgente vivida di tensione, processo di senso, religiosamente laico: <<I vinti, stelle morte della Storia, / dal camposanto di Montmartre mi lanciano / con fuochi fatui, con parole oscure, / disperati messaggi. // Così un tempo, di veliero in veliero, / alfabeti di fiaccole, richiami. // Il camposanto è un immenso veliero / che naufraga in eterno>>.
Un romanzo di senso quindi, dove gli elementi, come il vento ad esempio, che in un ritratto a Van Gogh propone sillabe d’incanto senza nome: <<Tu che dipingi il vento insegnami a cantarlo, / con ultrasuoni di sillabe, senza mai nominarlo>>, ma anche apocalisse, ossia rivelazione di una visione che affronta delirio e naufragio, insieme e divisi.
Un sorriso dentro un grido, come l’amore che disvela la terra, e muore con violenza e rinasce come un’araba fenice o, che ironicamente, offre soluzioni di sbocco alle cose: << A giorni alterni sono io la luna / e tu l’immensa terra che mi attira, / e questa notte tu, tu sei la luna / – io ti tengo al guinzaglio – // so che mi stai sognando, mi accarezzi, / i globuli lo sanno del mio sangue, / ogni mio nervo teso come un arco / o un’arpa eolia che vibra al respiro>>.
Il quotidiano e il metafisico, il visibile e il visionario sono lingue di una unica lingua, tenue e potente, dove il disegno vitale occupa l’inclinazione del mondo, per non finire mai il suo canto: << Io sono Sharazad a cui fu detto: // morirai se interromperai il discorso>>.
Dalla sua “preistoria esistenziale” che è Le acque del Sabato (1954), passando per l’ impurità suggestiva di Transito con catene (1977), transitando da Geometria del disordine (1981) o a La stella del libero arbitrio (1986), la spirale del tempo, proustianamente inteso, vive il suo viaggio ininterrotto dentro il reale, il simbolico per trovare la sua autonomia, la sua sezione vitale (I fasti dell’ortica (1996)).
L’amore, il postamore, le radici germoglianti, mature e riconquistate. Queste anime convivono, mai scontrandosi, nella sua poesia, che ricerca le volute dei cieli, le tessiture degli affetti, fino alle ceneri, ricolmando la sostanza dell’essere in un piano di pregio che ricompone la memoria, per ritradurla in un gesto ampio di canto.