“La più grande poesia è un inventario”. Questo breve passaggio tratto da Ortodossia di G.K.Chesterton, riferito agli elementi salvati dal naufragio di Robinson Crusoe, possono scandagliare il passaggio esile e vorticoso della poesia di Mario Benedetti, uno dei più grandi poeti sudamericani, morto qualche anno fa a Montevideo.
La sua poesia riflette l’amore come programmazione solidale dell’esistenza e la storia come esperienza morale, scrive Manuel Vàzquez Montalbàn, come impressione lasciata nel tempo e archeologia lontana e presente, incisa nel cardine dell’esistenza.
La scrittura di Benedetti si impasta con la storia, si confronta con l’analisi e la sintesi dei passaggi di tempo, con le costellazioni delle cose, il loro fluire e il loro battere.
Egli ha conosciuto l’esilio e il viaggio, il crinale della Morte e del Male e la pacificazione della terra nell’istante, l’impegno della pagina, come la materia e la sostanza del proprio atto genetico.
La lotta, l’esistenza individuale che diventa coro di umanità e di nazione sono rincorse di tempo e lucida traccia di spazio e germoglio, da vivere e da ingannare: <<Non c’è dubbio. Questa e la mia casa / qui avvengo, qui / mi inganno immensamente. // Questa è la mia casa ferma nel tempo>>.
L’abitare significa essere abitati dal disabitato, rincorrere la luce della propria origine e, allo stesso tempo, sperimentare la povertà rilucente dell’essere vivi, la tensione tra essere e non essere.
Benedetti ha rivoluzionato il linguaggio con la forma esile della scrittura, una profondità sottile che ruba attimi e volti, così come il suo secondo libro Poemas de la oficina (Poesie in ufficio).
È come se la quotidianità abitasse non solo le fibre dell’essere ma anche gli spazi reconditi dei paesi e delle palpebre, le sedi del tempo, la solitudine dei passi sparsi: <<Resta soltanto un’eco irrimediabile/ della mia voce infantile, quella ignara.>>.
Il suo impulso creativo vive di architettura linguistica, di emblemi lessicali e testimonia passaggi e sfumature, insonnie e isole: <<senza presente rimanemmo a un tratto / senza futuro né fede né coraggio / come isolotti in mezzo alle persone/ e oggi montiamo/ sognando giorno e notte/ contro il tempo l’oblio e la corrente/ un’altra dolce tagliente profezia>> e nel presagio naufrago della solitudine <<in essa ci muoviamo e inventiamo pareti/ con specchi da cui fuggire sempre>>.
L’oblio pieno di memoria e la dormiveglia insonne sono il linguaggio dell’esule che ricorda e spera, ama e splende.
L’amore di Benedetti ha l’universo del particolare (<<Una donna nuda e nel buio / possiede una chiarità che ci dà luce… / una donna nuda e nel buio / genera uno splendore che ci dà fiducia… / una donna nuda e nel buio / genera una luce propria e ci accende…>>), non solo nell’intimistica figura del tango, ma anche nel volto tratteggiato strategicamente, come una docile lotta di posizione: <<…e stiro le gambe come ogni sera/ e muovo le spalle per rilassare la schiena/ e mi stringo le mani per far parlare le dita>>.
La sua sintassi è un prisma geometrico, sembra un filo esile che aprendosi rende composito il suo tratto e il suo piano, come un volume o una verbalizzazione.
Percorrere una diretta linea che contiene una cifra e una catena di sensazioni, così la sua delicatezza apre la sua immediatezza in un unico respiro etico e intimo: <<La mia pena è un vaso di preghiere / che ti rovesciano sul prato/ e a partire dal prato nasce Dio/ e pure lui è un poco solo, / davvero piuttosto solo e solo>>.
Pochi fulminei spazi di tempo, pochi lanci di anima inquieta che, come scrive Martha L.Canfield: scava e affonda nelle tematiche del silenzio, della solitudine, del doppio, dell’amore e dell’odio, dell’essere e del nulla, e con quella sua libertà vallejiana di appropriarsi delle parole e trasformarle secondo una sua immagine interiore, stabilisce delle associazioni inconsuete che generano significati inconsueti.
Il colloquio e il dialogo o il soliloquio, sono lo specchio dell’atto poetico come incrocio di destini tra uomini e momenti, epoche e visioni.
Il ritmo del tessuto poetico veste le parole di traccia imperscrutabile. Una punteggiatura che segue l’interiore impronta delle cose, come il respiro del mondo dove si av-viene.
Ogni verso raccoglie la sua anima inquieta, la sua dimensione di tempo, la sua parentesi che si anima e si accende.
La colloquialità ha un’anima rovesciata, come la patria che si consuma nel giorno, come la città che abita gli occhi che si adagiano nei caffè e nell’ora che si ripete.
L’altro è parola, che nelle <<terrazze senza volto>> chiude <<gli occhi a bassa voce>>, in una veglia di domanda, in uno iato a fior di sogno.
Nel miracolo del naturale avviene anche il dramma del territorio disperato dell’incomprensibile, ma <<…tuttavia nel mio amore ci sono altre cose/per esempio i sogni con cui muovo la terra/la povera lotta che combattei e combattemmo/i buoni odii quelli che nobilitano/il costante dialogo con la mia gente/ la domanda pungente che mi fecero/ le veraci risposte che non detti…>>, in una stranezza di cielo.