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MCM – La luce ombrata e luminosa della storia

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MCM[1] di Francesco Terracciano, titolo che richiama il logo dei muri della fabbrica delle Manifatture Cotoniere Meridionali nel quartiere-confine di Poggioreale, pubblicato da oédipus, fissa il tempo inviolabile di una linea cronologica che riporta la smisurata tensione di un’anima che cerca l’eleganza e la perfezione formale, non già come impeccabile linea linguistica, ma come luce sulla materia.

La metrica di Terracciano si mette sulle tracce di un mistero insolubile e acceso, in cui, come afferma Vanina Zaccaria,

«La parola diventa, allora segno che condensa e annuncia i destini ultimi e sintomo, ovvero indizio della lotta titanica e perenne tra partecipare ed essere partecipato dalle orti collettive. Una poetica, dunque, che porta in grembo il senso di un peregrinare e la responsabilità di un canto dell’uomo e per l’uomo, una tensione argomentativa e stilistica che permette al pensiero di emergere tra gli umori della lirica».[2]

Il territorio quotidiano è permeato dei passaggi e dei transiti senza bavature, laddove il limite, il tempo della quotidianità raccolta, la forma come pacificazione del mistero, la riflessione sulle storie minime, diventa il corpo nudo della storia e del testo.

La scrittura è una linea ontologica, in cui il dramma dell’umano contiene il suo risveglio, in cui i volti, i luoghi, i nomi, gli equilibri affermano il tempo fertile e fecondo di un spazio ampio di realtà, attraverso quella gravida propensione al dramma della storia universale, riaffiorato nel particolare e nella disadorna dimensione dell’esistere: «Maria è da sola al mattino / Ha una casa / minuscola, il balcone è largo appena / da starci con i piedi in diagonale. / La tessitura delle voci in strada. / Tra una faccenda e l’altra, va di fuori. / Passa la mano più volte sui giunti / con furia. Ha intatta ancora la speranza / che i giorni possano staccarsi, andare / come l’intonaco faldato ai muri».

La poesia dei segni, l’assenza, la dolenza delle cose, il viaggio del dolore, l’incrocio della bellezza e dell’infinito, la radicalità della tensione, fanno del percorso di Terracciano un paradigma ardito, in cui l’ordito, la campitura fragile dell’umano, le gradazioni affettive diventano il fulcro di una tenacia ineludibile che non si disfa.

Il dramma, la voce sottile, la biografia di questi ragazzi diventano anime accadute, chiamate, sorrette da una potenza di fuoco umano, che anche attraverso l’accenno, la polifonia, la vocazione narrativa consegnano il loro epicedio di fulgore disciolto:

«Ha sempre amato del mogano antico / il rosso esausto dei riflessi / All’alba / lucida tutti i mobili di casa. / Comincia dalla credenza, Adelina. / sopra i ripiani, tra i cristalli rotti / e i piatti, / allinea le bambole sventrate / coi denti. Gli altri arredi giù in cantina / – troppi ne ha accumulati, in anni ed anni – / nessuno i è fidato di vederli»

Anna, Elia, Enrico, Nino, Giulio, Alberto sono i nomi del tempo, l’accaduto che brilla, la memoria aspra e violenta mai vanificata dal dettagli e l’evento unico dell’umano e il fondo delle crepe come genesi della carne.

Terracciano compone la materia e la rende viva. Il catalogo dei nomi è un compendio di bellezza e riflessi, dove il male ha intaccato ma non ha vinto. Il residuo dell’umanità è un tocco lieve.

«Le braccia pendono qui tra i mattoni / le braccia e quelle mani, avanti e indietro / – fanno così anche i rami e c’è vento. / sono rimate qua, il cemento aperto / le sputa a volte, le lascia passare. / Le bombe un cedimento di struttura / un’esplosione, il terremoto forse. / L’ultimo, il più vicino. Gli anni neri. / È tutto qui il dolore se lo vedi / è questa cosa da poco nascosta / tra vecchie case, che appena la dici / è già filata. Niente che fa male. / Dicevi il sangue che corre, il calore / sopra la pelle: è già stato, riposa».

La scenografia dello spazio urbano, innervato nella desolazione e nel vuoto (cimiteri, sfasciacarrozze, carcasse, gusci e rovine), amplia la lucida e tagliente bellezza di tutto ciò che c’è e alla frangia dei fatti, dove la verticalità, la brutalità del mondo, la caduta della luce i incontrano con angoli e architravi e dove si svolge la vita minima e magra di una umanità in lotta.

Terracciano, però, riesce a donare luce sul male, a inseguirla come un segugio di altura («la luce / quasi una cosa viva tra i balconi / che si aggrappava ovunque, su ogni testa / veloce, intorno agli angli dei muri»). L’inizio delle cose è la luce. Egli, inoltre, la restituisce, donando cura e tenerezza, nonostante il dolore, il rammarico, la malinconia prima, lo smarrimento e la bava della storia: «Le cose che sono passate, le scritte / sui muri. Quelle ingenue dei ragazzi / la bava della storia nei cartelli / sbiaditi, sulla campata del ponte /  nelle pietre del penitenziari / nere, taglienti. Cantano di notte / qualche messaggio a chi è dietro le sbarre / giovani nella strada. Due monete / bastano ancora a pagargli da bere. / saluta tu, continua a salutarlo / anche e non c’è più da tanto tempo. / E alza la testa, se attraversi il ponte».

Il corpo vivente della fabbrica è un’ architrave di battaglia e vento tra i muri: gli oggetti, i telai, il gioco delle forme, le lucide vie e gli isolati, gli edifici e le macchine, i sedili e ciò che rimane durano nella luce («sudano, le grondaie»).

Come la densità celeste degli istanti, l’avvenire delle cicatrici, il tempo di là da venire che tocca ogni creaturalità:

«I viali, tutti insieme. Anche guardare / da qui il disegno delle palazzine / i due  tre piani uguali e dopo uguali / nell’aria ferma, tra i fili. / Somigliano quei posti di vacanza / ai muri bianchi che ho visto ma senza / la sabbia e gli oleandri, senza siepi. / Qualsiasi cosa dura in questa luce. / sudano, le grondaie. Manca la pioggia / e quindi è breve il riflesso dell’acqua / nelle pozzanghere. Il taglio dei sassi / dice che qui passavano carrelli / pieni, del peso andato sulla ghiaia. / C’è qualche cosa che si è mosso. Andiamo / tutti a vedere. Quell’ultima strada. / Un’altra porta socchiusa, una stanza / grande. Tante persone dentro, in piedi / che ora ci guardano. Visti, scoperti / quello che tengono in man, gli stracci /  intorno al collo, i berretti. Di pietra. / nemmeno un suono, una parola detta. / C’è una casa? Una luce che passa / da parte e i tende per terra / la scia che taglia gli angoli ai gradini / e si riavvolge vicino all’ingresso […]».

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Terracciano F., MCM, oédipus, 2021.

[1] Terracciano F., MCM, oédipus, 2021.

[2] Zaccaria V., MCM, Il canto di pietra della storia, in ID., cit., p.108.