Niccolò Machiavelli è stato sottoposto in ogni epoca a una miriade di letture differenti e decontestualizzate, ultima fra tutte quella di Michael Leeden, secondo il quale il Segretario fiorentino sarebbe una sorta di precursore dell’attuale “ neo-con”. Scrive Giulio Ferroni: “le opere di Machiavelli hanno avuto il singolare destino di essere usate nell’Europa moderna come emblemi cardinali del sapere e dell’operare politico: interpretate, deformate, messe in circolo come modelli per le più diverse prospettive ideologiche, con un’alternarsi di punti di vista positivi e negativi, di condanne senza appello e di consacrazioni assolute”. Uscendo da questo ancoraggio critico che nei secoli ha sviscerato ogni tipo di interpretazione e traendoci fuori da ogni scienza politica, l’analisi della sua opera si snoda nel modo in cui “egli ribalta in modo rivoluzionario la concezione umanistica, basata sull’unità della “saviezza” umana, sull’idea di una piena trasparenza del comportamento, di una piena adesione tra conoscenza, morale e azione. La “saviezza” è invece legata alla sua capacità di dominare il gioco delle apparenze, di far coesistere atteggiamenti contrastanti: il bene e il male” (Giulio Ferroni). In questa doppiezza e contraddittorietà sta quello che De Lubac chiamerà “dramma dell’umanesimo ateo”. L’inganno de La Mandragola costruita sul classico triangolo, in una perfetta orditura linguistica o la Clizia, commedia della vecchiaia e della sconfitta in cui il personaggio maschile (Nicomaco) non adombra più di tanto lo stesso autore negli ultimi anni della sua vita, sono una lente di ingrandimento di un velo di inquietudine mai eliminabile, di una sorta di tragicità del personaggio “che fa”, come Ligurio ad esempio, perso nel suo attivismo, nella febbre della prassi, con la quale costruisce il suo destino, in universo di utile egoistico e di “caricaturale parodia del mondo della politica” (Francesco Bausi) o Lucrezia, figura nobile e savia, specchio ideale non solo di una virtù femminile ma della stessa Firenze, secondo l’interpretazione di Alessandro Parronchi, rappresenta la vera eroina machiavelliana che fa della duttilità la sua arma di saggezza, vivendo secondo natura, fortuna e necessità. Nell’amarezza dei personaggi che chiudono le commedie, nella loro desolazione c’è l’anima della vera frantumazione dell’io e del suo disincanto. C’è in gioco la continua lotta delle forze in campo.
Lo Stato assurge al posto di Dio e la religione, e in particolar modo la Chiesa, spesso colpita da Guicciardini come causa della disgregazione politica dell’epoca, diviene strumento, come nel libro I, cap.11 dei Discorsi, dove dopo vari exempla, egli dimostra come <<mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in un popolo che non ricorresse a Dio, perché altrimenti non sarebbero accettate>>.
Scrive Felix Gilbert:” Pur indicando che una linea non di rado può essere la più efficace adottabile in una qualsiasi situazione, egli non mostra mai di preferire le azioni amorali alle morali (…) è altrettanto erroneo sostenere che egli volesse sostituire alla morale cristiana un’altra morale”.
Colpisce il malcostume, la corruzione, l’impedimento di ogni unità ma allo stesso tempo si sofferma sul valore della religione pagana e nel libro III, cap. I scrive che la “nostra religione” sarebbe già finita, per colpa della “disonestà de’prelati e de’capi”, se san Francesco o san Domenico non l’avessero ricongiunta a Cristo. Nell’oscillazione sempre in bilico tra assolutismo e repubblica, tra fortuna mutevole e ordine naturale, Machiavelli dialoga con il passato, senza scopi di erudizione o di filologia, se ne appropria per rendere efficaci le sue enunciazioni e per una compresenza di contrari: gli stessi ordinamenti che costituiscono la forza e la virtù sono destinati alla trasformazione per debolezza e crisi.
Nella stessa contraddizione di principato civile, scrive Bausi, “non è difficile riconoscere i caratteri distintivi di svariati governi dell’epoca a cominciare dal regime mediceo a Firenze, così come esso si era configurato nel XV secolo”.
L’anima di Machiavelli che emerge nelle lettere si adagia su motti e facezie, sul passaggio da cose “grandi” a cose “vane”, nel sorriso beffardo e dissacrante e non ultimo, nello sfogo gratuito.
Costretto all’inattività, non resta che “ingaglioffirsi”, come scrive nella celeberrima lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513 andando all’”osteria a giocare a cricca e a tricchetrac”, per poi immergersi la sera nella sua liturgia sacra, in un’esperienza che sembra coincidere con le sue esigenze elemnatri ma che trasmette amara vita di confine: “[...]Venuta la sera, mi ritorno in casa ed entro nel mio scrittoio; e in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto i panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia; sdimentico ogni affanno, non temo la povertà; non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro. [...]”.