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Nessuna verità

NESSUNA VERITA’” di RIDLEY SCOTT; USA, 08.

R. Ferris è un agente della Cia sul campo tra Bagdad e Amman. Il suo obiettivo è il capo dei terroristi islamici di quel settore e Hoffman è il suo capo che da dagli Usa lo dirige. Benché tratto da un romanzo di successo di D. Ignatius, sceneggiato da uno dei più dotati di Hollywood, William Monahan, cui si deve, tra gli altri, “The departed”, e montato dal premio Oscar Pietro Scalia, il film arranca. Intendiamoci: è sempre un film da vedere. Vi sono pagine da antologia: le sequenze tra le folle urbane e quelle d’azione ad esempio. Ma è la struttura narrativa che si è data, fedele al libro, che deficita. Il conflitto tra la “ragione ragionante” della politica strategica, che fa di ogni scontro parziale un tassello di uno scontro generale, e quello del “sentimento ragionante”, che appartiene a colui che vive in prima persona i conflitti, facendosene coinvolgere, è troppo schematico e, dal punto di vista diegetico (narrativo), irrisolto, perché affidato solo ai dialoghi: non diventa azione e/o affabulazione filmica. Di Caprio, proprio perché riesce a vedere le persone, non gli attori-burattini di quel teatrino collettivo che è lo spionaggio, è, nonostante tutto, anche il più lucido e aperto. Ma è anche il più sacrificabile, perché il più esposto, perciò è, come tutti gli altri della partita, “usato”. Scott, comunque, è sufficientemente distaccato dai sentimenti nazionali americani, essendo inglese, per non pensar male e non nutrire alcuna illusione sia sull’esito della guerra in Irak, che circa la gravità e la continuità della minaccia terroristica di matrice islamica. E comprende bene che, in questa situazione caotica, le ragioni di ogni singolo “giocatore” sono solo all’apparenza simili alle altre alleate nella strategia contro il terrorismo, perché ognuno “gioca” con proprie regole, propri e particolari obiettivi. Il film si nutre di questa consapevolezza ma non riesce a trovare gli strumenti linguistici per comunicarcela emotivamente. Ciò avrebbe richiesto un totale rovesciamento di prospettiva, una maggiore continuità e concentrazione drammatica, e non il continuo spezzettamento dell’azione che si svolge su numerose e disparate locations, tutte bellissime, senza che ce sia comunicata l’intima necessità per cui ciò debba accadere. Perciò il regista ci presenta il conflitto come sottotraccia: la differenza fisica, tra lo scattante e nervoso Ferris e la bolsaggine bulimica del suo capo, Russell Crowe, non potrebbe essere più espressiva. Anzi tra i due il più bravo è, a mio avviso, l’attore australiano, che dà al personaggio un’ombra paranoide di sottile cattiveria.

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