Georg Philipp Friedrich von Hardenberg (1772-1801) detto ‘Novalis’ (dal latino novalis = novàle, “colui che coltiva la terra vergine”) visse la sua esperienza poetica su vie parallele.
È più di ogni altro poeta romantico del suo tempo, colui che meglio sentì su di sé la nostalgia (sehnsucht) indefinita verso l’infinito, che meglio incarnò quella visionarietà naturaliter religiosa (“il fiore azzurro”), spesso sconfinante nel puro estetismo idealistico (si pensi al fascino della filosofia fichtiana e in particolare dell’Io filosofico assoluto sul giovane poeta), ma intrisa di senso pietistico e di devozione. Avvertì la forza preponderante dell’Assoluto, della “patria” divina, come attracco sovrasensibile e punto di riferimento dell’esistente, come scrisse Gerhard Schulz, la sua tensione era la “realizzazione dell’infinito, non la idealizzazione del finito”.
Ma ciò che costituisce il fulcro della poetica novalisiana è senza dubbio la composizione degli “Inni alla Notte”, un poema in prosa ritmica e versi, comparso sulla rivista “Athenaum” nel 1800 e suddiviso in sei parti. Pur immersi nella tradizione di Young e Herder e imbevuti della speculazione eckhardtiana, affermano la loro peculiarità, sospesi tra visione ed estasi, tormento della morte e “sacra” malinconia, estetica mistica e nostalgia, relazione tra soggetto e oggetto, essere delle cose e allo stesso tempo non essere di esse. La genesi di questi inni è rintracciabile nella morte di quel suo grande amore, Sophie von Kühn che morì giovanissima per malattia nel 1797, e in cui egli vide la sua palingenesi poetica, la sua meditazione speculativa.
La morte di questa donna è il punto di partenza per la sua visione “manchevole” del mondo ma è anche intreccio del divino con l’umano, è ricordo presente di una vibrazione dell’io lirico: una corrispondenza foscoliana di amorosi sensi, un annullamento di spazio e tempo, una unio mystica che transita nella morte ma che riesce ad annullarla, un desiderio di luce celeste che, attraverso i cardini Sophie-Cristo-Dio, fonda questo viaggio romantico e sublime verso il ricongiungimento con l’amata e con la Sapienza divina, con un moto ascensionale e redento. Il rapporto dialettico tra l’esaltazione della luce e la “sacra e ineffabile” notte è fondamento eterno e neoplatonico in cui l’Uno è tenebra che deborda e ossimoro, ma allo stesso tempo simbologia vitale, in cui anche il sonno umano è contatto con l’infinito in una dimensione di non ritorno.
La sosta dinanzi alla tomba dell’amata è un appartenenza che si imprime nel sogno e in esso si scorgono i tratti eterei di quel “sembiante”, tensione e sintesi dell’eros divino, dove quello stesso Uno appare, liberando le catene della nostra egoità, vero punto di arrivo della nostra tensione, come “l’amen dell’universo”. Egli stesso contempla quel mondo trascendente come un divinus puer, pur restando aggrappato alla fissità di quello terreno, alla sua finitudine precaria che attraverso la croce di Cristo, “vessillo trionfale della nostra stirpe”, sembra unire nel sol noctis il grembo della Rivelazione con l’armonia primigenia arcadica. “Svanito è il desiderio dell’andar lontano, vogliamo tornare a casa del padre”, “in questa temporalità, l’eterna sete resta sempre insoddisfatta”, attraverso questi due paradigmi Novalis esplica la sua concezione del tempo come imitazione dell’eterno (pienezza d’essere) ma allo stesso tempo come fuga da esso, e nella stessa sospensione del tempo, di goethiana memoria, vibra la fuggevolezza dell’esperienza amorosa e la trascendenza intima di ogni opera d’arte. La poesia, la speculazione filosofica diventano “ (…) nostalgia, il desiderio di trovarsi dappertutto come a casa propria”, espressioni del vagabondaggio del viandante che leggendo lo spartito della notte si incammina verso la salvezza eterna, lontano dal radicale dissesto del mondo in cui lo stesso sospiro affettivo genera una volontà di “immersione” nell’eternità, in ciò che egli stesso chiamò “annichilimento del qui e ora”.
Scriverà di lui Edgar Hederer, studioso del poeta “in volo da orizzonti lontani verso immense lontananze abbagliò come una meteora e si lasciò dietro negli spazi percorsi la scia di luce del senso universale”.