C. ha 19 anni. Ha avuto una vita di merda. Quando ancora era una bambina, la madre la prostituiva nei vicoli della Sanità per guadagnare qualche spicciolo e mangiare. A volte la costringeva a fare giochetti strani col fratellino. Truccava entrambi. Toccava entrambi. Il padre non era da meno… ci provava gusto a violentare la figlia. La svegliava in piena notte, le strappava via i vestiti, le abbassava i pantaloni del pigiama e infieriva su di lei. La spogliava, la feriva, la sporcava, la graffiava. La ammazzava. E tutto accadeva con una crudeltà senza limite. Sulle gambe le restavano i segni. Sulla pelle i lividi, che solo lentamente venivano via. Ma mai del tutto. Davanti a lei continue visioni oscene. Spaventose e traumatizzanti per una bambina così debole, così piccola. L’unica via di fuga era la sua fantasia. Immaginare un posto migliore, pulito. In cui qualcuno l’avrebbe amata. Le sarebbe stato accanto. L’avrebbe protetta senza condizioni. Senza interessi. Fantasticava di continuo, creandosi una realtà parallela in cui rifugiarsi nei momenti di terrore. Le fughe erano sempre più frequenti, e lei sempre più incosciente. Finchè quel mondo parallelo che si era creata non divenne la sola realtà possibile e accettabile. Non esisteva altro, o seppure esistesse era del tutto fuso con la sua irreale comprensione dei fatti. Ormai non c’era più alcuna ragione per tornare alla vita vera, nessun motivo per cui scontrarsi ancora con la cruda verità. Preferiva restare lì, nel suo mondo di favole e bugie. Nei suoi sogni romantici, inconsapevole dei pericoli. Ovunque fosse, non importava. In comunità, per la strada, in una clinica psichiatrica. Le bastava solo l’illusione di avere un uomo accanto che la stringesse forte. Che le stesse accanto in ogni momento. Che si innamorasse dei suoi occhi belli e azzurri.