Il gesto poetico di Osip Mandel’štam (1891-1938) raccoglie prodigi e increspature, con la forza silente di un ricettacolo che accoglie i movimenti dell’umano, li fa risuonare, li dispiega, con mistero e luce.
Nato a Varsavia in una famiglia della media borghesia ebraica, ma cresciuto in Russia a Pavlovsk e Pietroburgo, convertito poi al cristianesimo metodista, ha conosciuto il respiro dell’esilio e del rapimento dell’istante, come carne e estasi.
Un’erranza che si accompagna all’inquietudine, come scrive Lidija Ginzburg: “Egli è pieno di ritmi, di pensieri, di parole che viaggiano. Egli fa quel che deve fare in movimento, in cammino, per strada, senza pudori, e senza riguardi verso chi lo tiene d’occhio e si giungeva, davanti a lui, a provare un senso di raccapriccio, quasi che spiasse un processo concreto, biologico di creazione. Egli trabocca di ritmi, come trabocca di pensieri e di bellissime parole”.
Egli poeta-guerriero, raccoglie vertigini: non ha avuto alcun timore a sfidare Stalin, a guardarlo negli occhi e chiamarlo «montanaro del Cremlino», ad allontanarsi dai servitori del regime, per inseguire ciò che scrisse Pasolini, affascinato dalla sua vita: “un conato, eternamente infantile”.
La sua fame d’eterno è un pronunciamento di follia, come la densità delle sue immagini e il gusto procace per la reminiscenza e la citazione che propone specchi e tradizione.
In lui “si saldano – come scrive Remo Faccani- in un’unità specifica, immobile: la parola, intesa in tutta la pienezza e in tutta l’apertura delle sue connotazioni fonetiche, etimologiche e semantiche, è il materiale della poesia che lotta contro il vuoto, l’amnesia, la morte, e che in tal modo svela le sue potenzialità trascendenti”.
Fame folle, come la sua resistenza che nasce da una condivisione e da un’intima vicinanza al destino del singolo, come al destino dell’umanità intera, nel tormento che lo avvicina al suo amato Dante, l’uomo che percorre un viaggio per guardare Dio negli occhi, e vive la ferita e la perdita di una inadeguatezza, allo sperduto magma dell’esistere.
La sua condizione di esiliato è una limpida e abbagliante tensione alla vita. Non un discorso sulla vita, ma un penetrarla nei suoi occhi gioiosi e insonni, dolorosi e mortali.
Lo sfratto dapprima e poi il confino forzato nel 1934 lasciano una percezione profonda e randagia, un continente di non appartenenza, che troverà sfogo e altezza nei suoi Tristia, tanto vicini nella tematica e nei titoli, a quelli di Ovidio, uno dei primi esiliati della storia letteraria mondiale: «Conosco bene la scienza dei commiati, appresa/ fra lamenti notturni a chiome sciolte.// E ruminano i buoi, dura l’attesa: / ultim’ora di veglia delle scolte».
Una veglia che sconfina nella passione ardente e fertile per la smisuratezza della sua Nazione, grande come il cuore, profonda come l’anima di un uomo che così come sosta sul confine del suo essere, in egual modo affronta gli spazi infiniti dell’Armenia e gli abissi ineluttabili, per un pensiero libero, del gulag.
Un clandestino, un perseguitato, un intruso, morto in un lazzaretto grande come un continente, recitando l’immortalità di Petrarca agli altri detenuti; quella lingua di marmo, trasformata in una polifonia umana, in un’accensione di dignità e libertà, perché «I canti danteschi sono le partiture di una speciale orchestra chimica».
Proprio nella parola che abbraccia il destino luminoso e polveroso dell’esistere, la goccia della libertà di dire io non soggiace a sottrazioni, ma offre leggerezza poetica, visione dolce e spietata: «Voi, togliendomi i mari, la rincorsa, lo slancio, / e dando al piede il sostegno di una terra forzata, / cos’avete scoperto? Un principio sagace: / che il moto delle labbra non può venir sottratto».
Aumenta, con la sua vertigine poetica, la dismisura dell’anima, il colore vorticoso delle stelle, il cambio delle distanze, l’inestinguibile pena del desiderio che lotta con l’ostilità e l’abbrutimento del suo tempo: «Io mi porto questo verde alle labbra/ – questo vischioso giurare di foglie-/ e questa terra che è spergiura.».
L’ancoramento alle radici, il rumore del tempo pongono detriti sul viaggio dell’anima che sale al cielo e guarda il segno sul volto dell’amata, la sua saldezza, «per essere nel cuore dell’epoca».
Il suo cuore di tenebra che si disarma, che conosce solo gli occhi della meraviglia e dello stupore, del sorriso docile e non servo, deve rimanere fermo e stabile nell’epoca che vive, non può sfuggirla, non può evitarla, perché il folle conosce il pianto dell’amico, così come il corpo delle cose e dell’amicizia (importante quella con l’Achmatova), tanto vicina all’amore, da essere già avanguardia e avamposto di una forza di primordi e di genesi.
Ma l’esilio non è solo una caratteristica di Mandel’štam, è precipuità di ogni anima che mette in scena il mondo, che deve ritrarsi, come un sipario, sulle cose, cogliendo la parola per farsi creatura, l’amore per la sua Nadežda per destinarlo nel sangue, in un «oriente di conifere» tra «gli olmi lenti» in «un guscio di luce»: «A tu per tu, il gelo in volto io fisso: / lui fissa il nulla, e io fisso dal nulla.».
Quel nulla è un’opzione di soffio e sistenza: paesaggio che respira di neve e pane fresco, ritorna alla sua origine, diventa libertà e acme: «Io, come la natura sono povero, / e ho la semplicità che hanno i cieli».
La Storia che, implacabile, propone la sua legge naturale e che ha percosso, con la dittatura, il mistero dell’uomo per cancellarlo, non riesce a far deporre la piana brada del vivere, la sua gioia infantile, il battesimo dei frammenti.