Pablo García Baena (1921-2018), uno dei più grandi poeti spagnoli, la cui opera ha avuto, nella maturità, importanti riconoscimenti, come il Premio Principe de Asturias (1984), il Premio Reina Sofía de Poesía Ibero-Americana (20089) e il premio Internacional de Poesía Federico Garcia Lorca (2012), è stato tradotto finalmente in Italia. Grazie all’editore Passigli e alla Delegación de Cultura de la Diputación de Córdoba[1], con la cura di Elide Pittarello e la traduzione di Alessandro Mistrorigo, è stato pubblicato il volume Rumore occulto. Poesie, 1946-2006[2], che partendo dal titolo della prima raccolta del 1946, raccoglie l’arsi poetica di sei decenni: dal debutto, prima della nascita della rivista bimestrale Cántico, percezione antinomica di ogni eros carnale, fino ai versi di I Campi Elisi.
La poesia non ha margini. O meglio, anche le linee sottili degli orizzonti sono apice di gloria luminosa, di prossimità lucente e di cosmo mai ritirato. La città di Cordova, per García Baena, è il nucleo primordiale dello sguardo che riprende e vibra in divenire, non separandosi dall’atrofia della contemporanea metamorfosi.
In quell’interrogativo così antico («A chi chiederemo notizie di Cordova?»), la sua elegia racconta di un suono perduto e ora in rovina: «Non c’era bellezza più grande al mondo. / Per le strade di calce, quando furtiva / estranea ombra vagava innamorata, / instancabile da sole a sole, / tessendo l’incanto luna a luna, / quinte di muraglie, gelosie / di alte clausure, / palme d’ombra su muri bianchi, / era ormai solo amore lo scenario, / la litania armoniosa dei nomi […]».
Nella litania ondulata, la mano del poeta sfiora gli sponsali dei nomi come se fossero trafitture felici e scomparse, in una chiave di nebbia e in un fiore calpestato. Laddove i fugaci interstizi divengono l’occulto rumore del tempio della memoria tattile, il sigillo plastico della biografia e la visione accentrata della bellezza:
«Il suo edonismo classico, decadente ed erotico […], stabilisce un punto di partenza sul sentiero della bellezza. Un poeta che guarda agli altri poeti? Come tutti, tra i grandi. Certo, i versi per Luis Cernuda (a cui fu dedicato un numero di Càntico, sfidando il regime franchista) e quelli per Vicente Aleixandre — aspettando all’alba «tra gli iniziati a misteriosi culti» il vecchio bus per Torremolinos, la città della Costa del Sol dove ha vissuto per quaranta anni facendo l’antiquario — rendono più evidente l’appartenenza dell’Antico ragazzo ad un universo comune».[3]
Il rumore occulto, dunque, è il fasto sottaciuto delle cose che vivono della loro permanenza fragile, delle eclissi schiumata e delle nubi azzurre che nascondono il volto: «Voglio che sia il mio verso / come luna d’aprile, / come le rose bianche / come le foglie nuove. / Che la mia cetra suoni / come l’acqua sull’edera, / che il mio canto sia nulla / affinchè sia ogni cosa / e che ai miei versi cadano / ferite le stelle».
Il tempo della bellezza è lo schermo del ricordo che brucia l’anima. La sua ombra, la sua stagione rapsodica, il rumore (ancora una volta) confondono i profili di voce:
«Accerchiata d’edera / stai tu, lì, sola / bianca nel grigio / spettro della tua ombra. / Nella notte del tempo / la luna ritaglia / il tuo candore di marmo… / Quando tornano i giorni andati / la tua rotta effigie mi passeggia attraverso / al suono della tua rapsodia, / e la tua voce di nuovo si leva nell’ombra / di ciò che è passato… / la tua voce malinconica / che è rumore confuso / di campane che suonano. / Tu, morta in me / e sepolta nell’aurora» (Ricordo).
L’elegia di García Baena avvolge segretamente il ricordo. La porzione temporale annulla l’impermanenza, separa dal mondo. È luce[4] terminale di pioggia, libro che scivola, pianto di finestre e finale assegnazione del sangue. Qui il territorio del transitorio non è un grido, ma una illuminazione di lacrime estranee e sospiro:
«Mi avvolgo nel tuo ricordo / come in nebbie segrete che mi separano dal mondo. / Per strada sorrido all’amico che passa, / e nessuno, / mai nessuno / intuì la mia morte sotto quel sorriso / né il freddo senza conforto dei miei occhi che accecano / e chiedono dai tuoi più sdegno ancora, / più veleno. / Adesso che la sera si sgretola nelle ombre, / e che il libro di versi mi scivola dalle mani, / adesso che la pioggia piange sui vetri / della mia finestra, / e un pianto mi scenderà dagli occhi, / prima che una mano accenda la dorata / fiamma del mio lume, / dimmi se tu non sogni al tuo balcone, adesso / che la pioggia unisce entrambi con le sue lacrime, / o se sulla tastiera del tuo piano oscuro / agonizza Chopin / sotto le tue mani tremanti. / mai saprai il matto desiderio che mi tortura / di catturare le tue labbra nella mia bocca avida, / e sentire il battito della tua tempia nella mia mano / imprigionata come un uccello intirizzito. / Ma non saprai mai nulla del mio desiderio. / Nulla di quando penso di strappare con i miei denti / gli azzurri canali delle tue vene / e insieme / morire dissanguati, confuso il nostro sangue. / Ma siamo estranei. / Io resto alla mia finestra, / e tu a sognare un altro mentre Chopin sospira, / adesso che non arde ancora nel mio lume la luce / e che entrambi unisce la pioggia con le sue lacrime».
Irene Battaglini commenta:
«García Baena dipana uno scenario del Sé estremamente variegato. I suoi registri percettivi sono tanti quanti gli accordi di un pianoforte, e dichiaratamente si aprono ad essere scanditi nel tempo dell’Altro. Il tempo dell’Altro diventa un cuore che batte all’unisono, ma può essere anche lo iato che divelle le radici dalla terra in un terremoto di pioggia battente che tende ad infinito. Un poeta che colpisce per la sua vera e propria ampiezza affettiva, come se fosse dotato di una sensorialità in grado di incidere la nominazione non solo di tutte le sfumature del bianco, ma di dare un sostegno immaginale a tutte quelle emozioni stranianti che, senza la qualità poetizzante, porterebbero il Sé ad infrangersi sul vuoto di senso del presente. “Ma non saprai”, come a dire, Ma, ti fermo, mi fermo, prima che l’onda immateriale dell’esuberanza del pensiero sulle cose, prenda il sopravvento, e oltrepassi il dominio dell’Io».[5]
O come il desiderio della primavera che cerca amore nel cuore gonfio, nell’aria docile di un arrivo presagito. Il fuoco del contrasto è discreto e magistrale, come uno scontro acceso tra l’oblio e la materia vivente. L’ossimoro delle sensazioni rappresenta l’attesa di un’immagine tesa ad ogni arrivo, quando, nonostante la calma segreta del corpo, l’ansia travolge il sogno di ogni unione e «fronde verdeggianti e marmi in rovina fanno da cornice alla malinconia sfumata del giovane che si accorge di esistere[6]»: «Amami, Primavera, in questa ora / in cui tocco la seta della sera / in questa ora vergine che scappa / vieni e accendi la tua torcia di profumi / nei miei occhi che anelano il tuo arrivo».
Con Antico Ragazzo (1950), afferma Elide Pittarello:
«è più autentica la consapevolezza del tempo concesso ai viventi, come mostrano le figurazioni complesse della poesia omonima. Arpe, veli, chiome galleggianti sull’acqua e petali di rosa rinviano al modernismo dei paesi di lingua spagnola, che è di matrice parnassiana e simbolista. Ma ci sono anche paradossi surrealisti («rivivo lo sguardo pallido degli specchi»), maddalene proustiane («vassoi con mele cotte») e un malessere infantile come m reminiscenza dell’eden perduto […]. Così il sentire mette a soqquadro il sapere. La capacità di provare stupore muta la percezione in esperienza estetica, la trasforma in evento che prende forma dall’enciclopedia di cui si dispone. Quella di Pablo García Baena è edonista e dottissima.Con gli anacronismi tipici del ricordo che preme per farsi linguaggio, l’eros agisce sull’ethos, il sentimento sulla cultura, il passato sul presente».[7]
L’amore fugace, il sospiro vago di abbandonati veli, la mano che ripassava lenta le guance e le labbra, la finestra «dove il mare mutava in schiuma i suoi cigni», gli scali di luce gialla della domenica e la notte piegata sui monti rappresentano la generosa offerta del tempo antico e di sé in quel tempo racchiuso, dove il particolare era la genesi di un plettro di infanzia e di voci, di volti e di foglie, disseccati dai giorni.
La gemma temporale di García Baena è atlante di aromi, mito profumato che ha radici in un’antichità colata nella memoria, dove perdersi, riconoscersi e dissolversi. Città e luoghi persi, Venezia, di porpora sprofondata come un bacio eroso e splendente nella fine, «Trascinaci con te, cortigiana dell’acqua, / sciolti i lacci, i segreti, / cloache che inghiottono ultime resistenze, / carminio sfavillio del desiderio», che unisce ogni caducità e nitore infinito: «[…] caduceo fiorito, coscia, ermellino inzaccherato, / mentre le tue mura cadono al lichene delle labbra, / gotiche merlature verso il fondo, / verso il silenzio, talamo, oppiaceo, / al tuo fango di tedio e saggezza, / alla tua splendente fine inesorabile, / Venezia».
E poi l’Egitto, l’Arabia, i boschi di cannella e mogano di Ceylon, divengono le mappe di una gioia segreta e secreta protesa nell’attesa della confessione del sorriso-eden.
In Giugno (1957), la vertigine visiva porpora si accompagna al tremore percettivo che scorre segreto. Nell’ombra della pienezza avvicendata delle cose, nelle impressioni sature, nella regione dell’estate, «quando tutto il mio essere è un canto all’amore, / un cantico all’amore donato, / mentre le mani si curvano sulle schiene nude / e le mie palpebre si tingono del violento giacinto / della felicità», il fugace diadema delle cose che sono e che furono apre la continua ricerca di ciò che non finisce e il limite sfrondato. La carne incendiata e l’assenza[8]:
«Oh, so che dovrò cercarti / quando l’assopito cigno dell’autunno agiterà le ali nel nido; / ma Giugno è ora un pastore silenzioso / che coronano gli ori sacri della trebbia, / e io bevo sul tuo corpo la musica nuda / che langue nei violini lenti del meriggio. / Oh, io so che dovrò cercarti / quando la campagna si sveglierà dal letargo giallo delle elitre; / ma ora è solo il tuo corpo, il tuo corpo unito al mio, / mentre giugno incendia di felicità i monti più lontani / e il fiume bacia timidamente i nostri piedi / come se Narciso ci contemplasse con diluiti occhi / verdi d’acqua».
In Olio (1958), nel Palazzo del Cinematografo, il mescolamento delle visioni magiche che dimora nei secoli, così come lo schermo, diviene il buio del bisogno di luce, il respiro della presenza negli occhi e il desiderio di un incontro che preme nella tenue penombra della notte ormai eterna: «Dispari. Fila 13. Poltrona 3. Ti aspetto / come sempre. Tu sai che sono qui. Ti aspetto / Attraverso un oscuro bosco di illusionismo arriverai, forse portato dal fascio negromantico / o dal sogno triste dei miei occhi / dove respiri, oh lampada tremolante nel cesto / profondo della notte, amore, amore già mio».
Se la memoria scaturisce dall’oblio, l’esplorazione dell’amore è qui una spoliazione, un taglio, un legame, un pianto carnale, l’ordito delle carezze e delle disillusioni. Uno sguardo inerme come timore nudo: «Inerme sul marmo ascolto il vento tuo / delle trombe alzate alla luna ultima, / quando l’angelo spegne la lanterna del tempo / e rimuove le bende, / la cupa dimora delle urne, / il buco oscuro, il cenotafio… / Perché nudo sto davanti a te e ti temo».
Ma se la visione è pienezza, essa intuisce il bacio dell’alba e il canto notturno, il ricordo rivive e poi comprende, ripetendo le armonie silenziose, la sera oscura, il fiutare il fetore del tempo, fino al mancato sfioramento e al sangue incrostato.
Tutta la poesia di García Baena è, dunque, non soltanto una rischiarata memoria episodica, ma soprattutto, il tratto tattile e materico delle cromature e l’accostamento respirato delle opposizioni, dove l’ingrediente vitale rappresenta la trama emersa di una lunga narrazione barocca[9], come incanto e lucente fedeltà:
La poesia è la vita, la realtà convertita in un grande incendio, l’atto poetico di cui tanto si parla è solo il riflesso di una conoscenza trasfigurata che porta alla cristalizzazione di qualcosa di vivo, alla nostalgia e alla perdita di ciò che fu gloria momentanea: canzone, carne, profumo. La poesia non è nient’altro che un dietario sinceramente rigoroso e vero[10]. (traduzione inedita di Daniela Di Salvia).
Come avviene nella Notte Oscura, chiaro omaggio a San Giovanni della Croce, la rapsodia carnale («Perché è notte e vien cadendo l’acqua / noi ci abbracciamo, soli, nel vecchio / grembo del divano mentre risuona / la voce di Nat King Cole, triste e calda / legna di brusche braci crepitanti / dentro la gola umana dei vinili») è un bagliore oscuro che si consuma nella sete e nell’infittimento del sonno, dell’acqua e del mondo assopito nell’arabesco di una distanza naturale[11].
Si presentano così tutti gli omaggi: dall’ultima solitudine di Góngora, che vive della cruenta lotta contro la morte dissigillata di pietra, all’acqua senza quiete di Guillén, che leva commossa l’esattezza abbagliante di ogni parola, fino all’albanio dolente di biancore e di zagare della Siviglia di Luis Cernuda, in «quella luce sospesa in bellezza / che erano la sua orma chiara, / passo e sortilegio, / palpito della sua presenza repentina / e che andava al di là di quella magnolia, / di quel ritmo nell’ombra, / di quella luna grande / che in Settimana Santa ascende pura […]» o allo splendore di Vicente Alexaindre, che aspettava all’alba dell’ebbrezza di luce, «tra gli iniziati a misteriosi culti», il vecchio bus per Torremolinos.
Il gesto di García Baena arriva, pertanto, comunicando la vastità verticale della vita. Non è solo la comunicazione nascosta e pittorica di un avvenimento in piena, è il rivelarsi del mondo dentro la capienza della fine e dell’insorgenza, svelando un microcosmo poetico di ombra rilucente, in cui la liquida unione di esistenza e disincanto promette rigenerazione, naturalezza edenica, sebbene avvinghiata e scomparsa:
«Se io fossi più vecchio / cosa che pare quasi impossibile, / amerei i fiumi limpidi tra i giunchi, / l’arco delle trote, / le oche che passeggiano in fila sulla riva, / goffe e zitelle come signorine puritane, / la campana che suona lontana nel podere, / tutto come se lo avessi già visto / in un paese nordico. / E lì, sotto l’albero della vita, / sedermi a leggere un libro bello, / già letto. / Ma sì, sono vecchio / e amo perfino ciò che appena ricordo: / la notte fonda e il suo gin, / la nuca che finisce nell’ultimo riccio / tra i tuoi denti, / destarsi all’alba e col timore / di non sapere chi dorme tra le lenzuola, / l’onda bianca e fredda che mi lascia nel corpo / la brina dei christmas, / la fortuna augurale dell’anno nuovo. / E di mattina al sole, vicino alla barca, / leggere lo stesso libro dei miei giorni».
Il viaggio contempla sacralità e avventura inermi. Come l’anima ridesta il suo vagito tenue che dipinge corporee aperture e lacerati incontri come emblemi: «Ho lasciato le porte socchiuse / dopo il suicidio. So che vieni, arrivi dalla calce dell’ingresso con la luna / ed è bella l’estate che hai scelto».
Elide Pittarello scrive:
«Non più ai margini e nemmeno al centro, Pablo Garcia Baena è cosmopolita per essersi preso cura delle cose belle del cosmo a partire dalla sua Cordova, dove ha coniato l’arte di trascendere le gerarchie dovunque si trovino e da qualunque era provengano. Simbolicamente gli è prossimo tutto ciò che lo commuove: l’opera d’arte, l’oggetto quotidiano, l’arredo liturgico, l’idillio della natura, il reperto archeologico, la veduta urbana. Gesti che tendono alla relazione con l’altro: la persona amata, il familiare, l’amico [...] Se la bellezza è negli occhi di chi guarda, la sua presenza nel mondo è qui incarnata da un artista che ha un corpo, dei gusti raffinati, la vocazione a fare una poesia che incanta ma non sempre rincuora. [...] L’armonia di Pablo Garcia Baena è una meta piena di inciampi anche maliziosamente ironici. L’amalgama del lessico sontuoso e quotidiano, la convergenza dei metri colti e popolari ne rivelano i tratti cangianti, gli enigmi lasciati in sospeso. È un umanesimo che si sa vulnerabile, contemporaneo. Per analogia con quanto è successo nel campo dell’arte, anche la letteratura è libera dalla tutela di narrazioni critiche che imponevano morfologie e valori in nome di cambiamenti necessari. Si fatica a non contare sulla linearità dei fatti e sulla fede nel progresso, ma ormai nessuna creazione può dirsi storicamente inappropriata».[12]
Anche dentro il termine e le dissimulazioni del limite, il cenno che ridisegna le cose si situa tra inizio e fine («Ospite leggero l’autunno arriva / silenzioso fino a Malaga. Io prego / per le sue bende benefiche di pioggia / che fasciano il dolce cuore malandato / dell’estate e della sua carne. Bacio fiamme / nelle morenti foglie del ricordo. / Addio, fredda piazzetta. Sulla panchina / distende ottobre stracci verdastri. / Cadono frutti e uccelli. La nebbia / cicatrizza i baci»), non già testimoniando una resa ma percependo il riverdimento della parola d’amore che non si sottrae e si volge, chiamando, con prepotenza, il suo assenso a ciò che vive.
Baena Pablo García, Rumore occulto. Poesie, 1946-2006, a cura di Elide Pittarello, traduzione di Alessandro Mistrorigo, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2017, pp.150, Euro 18,50.
Baena Pablo García, Rumore occulto. Poesie, 1946-2006, a cura di Elide Pittarello, traduzione di Alessandro Mistrorigo, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2017.
- Un dietario riguroso, en: Medio siglo de poesía española, Monte de Piedad y Caja de Ahorros de Sevilla, Sevilla 1990.
Battaglini I., Lezioni alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, a.a. 2017-2018.
Ceballos M. P.- Parra Membrives E. (eds), Mujeres y ausencias. Duelo y escritura, Peter Lang, Bern 2009.
García Galán M. T., Esteticismo como rebeldía: la poética de Pablo García Baena, Renacimiento, Sevilla 2003.
Jiménez M., ‘Rumore occulto’, la última ilusión de Pablo García Baena, “Cordopolis”, 16 gennaio 2018.
Lanz J.J., «La poesía», en: Rico F. (Dir.), Historia de la literatura española. Época contemporánea (1939-1975), primer supplemento 8/1, Crítica, Barcelona 1999.
Lepri P., Il poeta García Baena, un «antico ragazzo», in “Corriere della Sera”, 29 dicembre 2017.
Villena L.A. de, Introducción a la poesía de Pablo García Baena, en Poesía completa (1940-1980), Visor, Madrid 1982
[1] Jiménez M., ‘Rumore occulto’, la última ilusión de Pablo García Baena, “Cordopolis”, 16 gennaio 2018.
[2] Baena Pablo García, Rumore occulto. Poesie, 1946-2006, a cura di Elide Pittarello, traduzione di Alessandro Mistrorigo, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2017.
[3] Lepri P., Il poeta García Baena, un «antico ragazzo», in “Corriere della Sera”, 29 dicembre 2017.
[4] Cfr. García Galán M. T., Esteticismo como rebeldía: la poética de Pablo García Baena, Renacimiento, Sevilla 2003, p. 93.
[5] Battaglini I., Lezioni alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, a.a. 2017-2018.
[6] Pittarello E., prefazione, in Baena Pablo García, Rumore occulto. Poesie, 1946-2006, cit., p. 14.
[7] Id., cit., pp. 14.15.
[8] Cfr. Ceballos M. P.- Parra Membrives E. (eds), Mujeres y ausencias. Duelo y escritura, Peter Lang, Bern 2009.
[9] Cfr. Lanz J.J., «La poesía», en: Rico F. (Dir.), Historia de la literatura española. Época contemporánea (1939-1975), primer supplemento 8/1, Crítica, Barcelona 1999, p.112.
[10] Baena Pablo García, Un dietario riguroso, en: Medio siglo de poesía española, Monte de Piedad y Caja de Ahorros de Sevilla, Sevilla 1990, p.30.
[11] Cfr. Villena L.A. de, Introducción a la poesía de Pablo García Baena, en Poesía completa (1940-1980), Visor, Madrid 1982, p.16.
[12] Pittarello E., cit., pp.16-17.