L’attraversamento di Ruffilli, nel suo ultimo libro, Le cose del mondo[1], edito da Mondadori, riannoda e apre fili immaginati e irrefrenabili, verso cui la ragione tenta di imporre antidoti. Sono linee rette e orari, termini binari, contro i rischi dell’ignoto. Ma il suo percorso è un gesto, un atto libero di relazione con la realtà, la sua densità, la sua prospettiva ampia e inconoscibile, e la presenza di ciò che c’è. Resta il mistero, come la genesi di ogni poiesi, nonostante ci assalga la paura «di chissà quali sviluppi, / di non essere capace a ritornare»: «È proprio andando che si capisce / qual è il rovesciamento di ogni prospettiva. / Perché, restando fermi, sfuggiva in pieno / che è una questione del tutto relativa. / Avanti e indietro… qui e là… più o meno, / ma sui riferimenti sempre circostanti. / È il movimento a darci in dote la speranza / mettendo in relazione noi stessi con le cose / e fa presenti a un tratto le ignote e le distanti, / rendendo le vicine subito vacanti».
La sua apodosi vive la perdita e l’abisso. Perdersi per poi trovarsi. La lentezza delle cose già viste e ri-velate che si riscoprono, forse librano, o, meglio, dispongono la vita che ci precede:
«Partita infine la carrozza, uscita / fuori di stazione col ritmo rallentato / che invita a sporgersi dal finestrino, / fino ad avere il senso pieno, dentro / agli occhi, del viaggio già avviato. / E poi dal centro, in curva, di nuovo / col sibilo del freno, testa e coda, ecco / l’insieme di tutto quanto il treno che / ci si mostra in corsa al di là del vetro- / Scoprendo che la vita ci precede / nel mentre stesso che rimane indietro».
Il suo viaggio nella carrozza del treno resta sospeso e soffocante, come se si riappropriasse di una narrazione omerica e dantesca[2], come se la risperimentasse, nascendo in una scrittura, fra «gridi, spinte e puzza nelle bolge» e attraverso una discesa interna di un sorso di destini possibili, formata di letti sfatti, bagno e cucina, «Ombra tra le ombre che fuggono di scena, / col treno che riprende il movimento».
L’esigenza di un conforto sicuro, di un contatto con le cose stabilite verso casa, di quanto uno cambi senza accorgersene come un lungo fondo di ritardi, di come il tempo sia una lunga dilatazione di arrivi, di segni, di luci e stagioni, transita tra le ombre di vita chiusa e dischiusa, la cifra sulla pelle di un limite, come acqua che scorre o sabbia tra le mani, fino alla remotezza e alla dolce finitudine, per poi «Di corsa, inseguendo se stessi, / la propria figura smarrita, / pensandosi in fondo lasciati / soltanto un poco più indietro./ E andando lasciati in avanti / metro su metro, in questo / spreco di sé nel mondo fuggendo, intanto mutando in gara infinita /- intravista e perduta – la vita».
Il gesto, la parola, l’espressione, l’atto d’amore, la pioggia che gorgoglia durante l’ansimo e il respiro del sonno, per poi fuggire «al cupo turbine ventoso / che si immagina e si sente / e al cupo conto dei morti che / la vita ci riserva indifferente / spesso e volentieri senza riposo». Si fa i conti con la morte vivendo, fiatando sulla propria lucente dignità di uomini, e spesso vivono i letti sfatti, i bagni inospitali, le cose irrisolte, le appartenenze sbandate, i luoghi toccati e dispersi, come deriva perduta fino al ricordo.
Ma la materia vivente di Ruffilli è una vastità, una sproporzione, anche davanti al nulla, ai sigilli del tempo, ai soffi (sapori, odori, stanze remote), agli amori. Crea orizzonti sottili come riflessi risorti. Straniero tra la gente eppure «a bere senza sete l’amaro fino in fondo, / più perso e disperato muovendo / dentro il vuoto traboccante dalla vita / in giro per il mondo sbattuto e sradicato, / intanto riportato a galla, rimesso in piedi / con sorpresa e lì, contro ogni attesa / che intanto avevo ormai sepolta, / resuscitato e vivo un’altra volta».
Roberto Galaverni scrive:
«è vero allora che la tensione, se vogliamo, la drammaticità di queste poesie deriva dal fatto che intendono celebrare la precedenza della realtà fenomenica, il primato della natura e della materia, la priorità della vita e, appunto, delle cose del mondo, ma attraverso percezioni e mezzi di natura affatto mentale, astratta, artificiosa. Il padre insegna alla figlia a dare credito alla realtà, a credere nell’imprevedibilità e nei diritti del vivente, ma di suo più che vivere pensa, riflette, si distacca convertendo tutto, croce e delizia, nei vicoli ciechi e nei cortocircuiti del pensiero».[3]
Nella seconda parte del libro,Morale della favola, i testi vibrano dell’intenso rapporto con la figlia e la sua crescita. Il tempo del figlio è diventato quello del padre: gli spettri e i tormenti muti, i sottintesi e le ferite, il desiderio della difesa all’abbandono della notte, le direzioni dell’orizzonte.
Il rapporto con la figlia è un altro viaggio, lungo come un dono commosso, dove ogni scoperta si sente addosso, dove l’amore è così grande da essere senza misura, per dare modo alle cose di accadere e lasciarsi sorprendere, e alle anticamere di schiudersi:
«A un tratto l’ho capito in modo inaspettato / che non sarei più stato, io, il figlio / principe di un regno pressoché assoluto / avuto in pegno eterno da mia madre / e che ero diventato sostegno e protezione, / io, tuo padre, portato ormai a fare da misura / e segno, perfino, a te di direzione… / e mi ha colpito di più perché in realtà / non l’ho voluto, il fatto indubitato / che non avrei creduto, di aver cancellato / da me di colpo tutta la paura».
La sezione La notte bianca conta i segni dell’insonnia e gli orli neri dell’assenza. La memoria cede, annaspa e caracolla, dice Ruffilli, riportando detriti e deserti attraversati, tralasciando quasi tutto senza controllo, persino tendendo a spegnersi. Rimane il mistero insondabile del vivere, l’impronta creaturale del destino, i distacchi, i fatti d’amore, la pronuncia di ogni evento, «il pensiero pensato della rosa», come l’origine segreta di ogni fessura, dove aspettare svegli il mondo e il suo girone di miseria e splendore.
Le cose del mondo rimangono nel nostro imperioso tatto, «il tempo le consuma nel loro strazio, lasciano tracce consunte («l’oggetto della mente / che è rimato preso e imprigionato / appeso nei suoi stessi uncini, / disteso in sogno, più e più inseguito / perduto dopo averlo conquistato / e giù disceso sciolto e ricomposto / rianimato dalla sua corrosa forma e/ riprecipitato nell’imbuto dell’immaginato»), come un prolungato inventario. Ciò che rimane dà forma al mondo: anello, armadio, astuccio, bambola, barca, bicchiere, calze, cappello, cartella, diario, enciclopedia, finestra, gomma, lavagna, letto, libro, matita, occhiali, palo, pettine, porta, radio, scarpa, sedia, specchio, tacco, vocabolario, come se fossero indizio di illimitatezza, annuncio e appello di vita che si dispone e si porge. Mostrano il loro alfabeto incontenibile, destinano l’orlo vigile della scrittura e il segreto del flusso vitale e dell’universo, come costruzione simbolica del nome.
In Atlante anatomico, la dimensione corporea e creaturale viene narrata attraverso il suo segno primario dell’eros. È una mappa dell’umano dinanzi alla realtà. L’enumeratio di Ruffilli chiede che
«Ogni parte del corpo chiede di essere / stanata e nominandola scaldata /sottratta al vuoto, ripresa, rianimata: / il collo, le caviglie, il tenero che sta / sotto le braccia, la curva della schiena, / là dove il ventre sbocca nella sua vallata, / la rosa nera e l’ombra delle ascelle… / è con il nome nel suo stesso pronunciarlo / che il desiderio riesce a concretarsi / spinto con foga sulla pelle a invaderne / e permearne ogni rilievo e anfratto / con le parole che aprono la carne / amplificando la vista e il gusto / l’udito, l’odorato e il tatto».
La parola messa a nudo. Lo stupore, la domanda, il segno, il corpo del segno, la traccia, la scrittura, il silenzio, l’idea-camaleonte sono dispersione emersa e vita che si posa all’unisono. Un’essenza conquistata di sogno vagabondo e di bellezza. Come ricucire e ricomporre il taglio, come evitare il dissolvimento della vita vivente «mobile vagante / distesa nel mistero»: «Qual è il colore / che più tace / nell’urlo del silenzio? […]», Da dove nasce, / prima ancora /di ritrovarci nata, / tutto quello che /-senza saperlo-/ siamo già stati?».
Oppure «Che sia laggiù / la nostalgia del mare / nella sua essenza / di cosa in conquistata / compresa a stento / tra le sponde, / camaleonte / di velluto e raspa / di celeste e di smeraldo / di blu inchiostro e nero, / la zona misteriosa /e non contaminata / da cui proviene / insieme con la vita / tutta la schiera /di mostri e di fantasmi / dispersa e trascinata / dall’onde?
[1] Ruffilli P., Le cose del mondo, Mondadori, Milano 2020.
[2] Demi C., Paolo Ruffilli: Le cose del mondo (1978-2019), (//altritaliani.net/paolo-ruffilli-le-cose-del-mondo-poesie-1978-2019/?fbclid=IwAR02_Gbj5-Hyg2pBJJdNRsTdapYOt5yCxOQHNtNgZbb5_eJq2BSaIF3lEuE), 10 febbraio 2020.
[3] Galaverni R., State attenti all’intelletto, è falso, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 23 febbraio 2020.
Ruffilli P., Le cose del mondo, Mondadori, Milano 2020, pp.198, Euro 20.
Ruffilli P., Le cose del mondo, Mondadori, Milano 2020.
Demi C., Paolo Ruffilli: Le cose del mondo (1978-2019), (//altritaliani.net/paolo-ruffilli-le-cose-del-mondo-poesie-1978-2019/?fbclid=IwAR02_Gbj5-Hyg2pBJJdNRsTdapYOt5yCxOQHNtNgZbb5_eJq2BSaIF3lEuE), 10 febbraio 2020.