L’assegnazione del Nobel per la letteratura a Tomas Tranströmer (1931) recupera un passaggio perduto dall’ultima assegnazione, alla grande poetessa polacca Wislawa Szymborska nel 1996. Guardando alle motivazioni, fanno riflettere i punti focali che ne determinano l’acclamazione, che tra l’altro riporta il premio in patria: l’immagine che abbraccia densità e limpidezza, l’accesso alla realtà e in una parola: la visione.
In Italia la sua poesia è poco conosciuta (all’estero è tradotta in molteplici lingue, ma qui fu molto apprezzata da Mario Luzi) o meglio lo è, solo grazie all’acuta visione dell’editore Crocetti (e prima di altre due case editrici, edizioni del Leone e Centro mondiale della poesia), che con la silloge antologica curata da Maria Cristina Lombardi, offre un panorama da guardare con occhio attento e sguardo d’altrove.
La sua poetica rappresenta un livello di eccellenza che si dipana su linee nette, d’altura, che svela e rivela la quotidianità, come uno punto di luce e un fenomeno.
L’epifania dei segni delle cose. Tutta la sua lirica ha questo imprinting, una impronta felice e obbligata.
Il grande poeta Roberto Mussapi, di recente, ha insistito molto sulla questione “metafisica” della poesia di Tranströmer, che è risposta viva alla fuga minimalistica, che si nasconde dietro veli e finte armonie.
Esiste in questo processo cognitivo e poetico un’indagine reale che si riporta sulle sfere dell’essenziale, che circonda gli elementi descritti dalla realtà, in un unico processo, senza frammenti.
La malinconia della sua terra, del resto, ha nella ricerca dell’infinito e dell’ascolto dei movimenti dell’essere una costruzione d’anima, che riposa nelle percezioni e nelle trasfigurazioni, nei movimenti e negli spaesamenti del tempo.
Nonostante la sua malattia che lo ha debilitato ma non gli ha tolto la sua vera voce, donandogli anzi una cura maggiore dell’essenziale (come l’haiku, ad esempio), egli percorre le vie di un suo personale espressionismo, che indaga la realtà nei recessi, e che proprio in quelle densità cosmiche scopre l’anima del viaggio, alla ricerca di un riassunto, di un molo d’attesa.
Nel 2004 in Italia ha vinto il premio Nonino e in quella occasione egli stesso si è soffermato sull’intenso lavoro poetico che conosce brevità e difficoltà, sia come processo sia come esperimento.
La scrittura è sempre una meta e spesso mai un approdo.
<<Dentro di me continua uno scrivere costante, ma quello che arriva oggi sulla carta sono poesie brevi, concentrate, come quelle in forma di haiku con le loro 17 sillabe>>.
Anche i titoli delle sue opere come Segreti sulla strada, La gondola del dolore, Visione notturna sono la testimonianza di una visione d’insieme della totalità del reale, che ha la finezza del tocco e del richiamo. E soprattutto dell’invito.
L’invito a scoprire che dietro l’afasia che gli ostacola la voce, esiste un suono che non si elimina, non si censura.
Le cose hanno il loro mistero ineffabile, il loro viaggio che percorre paesaggi e li celebra, ma che conosce le ferite inquiete del visibile.
In quello spazio angusto e magnifico e spesso nel disagio, si cela la sua arte che percorre con tela finissima anche l’invisibile, oltre la coltre.
La natura non ha solo l’aspetto della vertigine, e la realtà, anche quella intravista appena, investe di grazia il suo desiderio, come un abbraccio e una sommità di aneliti.
<<Non vergognarti di essere uomo, sii fiero! / Dentro di te si aprono volte su volte all’infinito/ Tu non sarai mai finito e tutto è come deve essere>>.
La sua dimensione ha il tratto della scoperta e dell’identità di un volto che offre al lettore la possibilità di sguardo e lente di ingrandimento delle cose.
Il silenzio dei paesi nordici, con il grigio che folgora tra le nubi, è il suo teatro, la sua scena di stanza.
Una stanza inquieta che cerca l’accesso e il pertugio nell’impervio e spoglia i paesaggi, per conoscere la verità di ciò che è essenziale e vero. Un pentagramma di sguardo, come la sillaba che percorre la musica del suo pianoforte di silenzio.