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Patrizio

 Un matrimonio o una comunione fine anni ’70.  Ristorante kitsch alle falde del Vesuvio o sulla litoranea corallina. Lampadari finto stile impero che illuminano gli sguardi soddisfatti degli sposi che pensano ai regali, alle buste, al viaggio di nozze, alle bomboniere di Capodimonte. Le portate si susseguono. Aperitivo e antipasto, gnocchi alla sorrentina e noce di vitello con patate. Sorbetto al limone. Spigola al forno. Le zie chiatte degli sposi, pittate e ingioiellate come Moira Orfei, attendono i loro idoli canori, i vari semidei dell’Olimpo neomelodico napoletano. E arriva  Patrizio. Capelli neri e vestito elegante. Cravatta sgargiante su camicia monocolore. Occhi accesi e  ridenti che attirano su di sé l’attenzione dei presenti, fino a pochi istanti prima immersi nelle portate con le guance  arrossate  dal vino di Gragnano. Patrizio prende il microfono, fa gli auguri  e comincia la festa. Una discoteca al mare una canzone per sognare una notte per amare e il risveglio di noi due l’alba poi lo porterà… Millenovecentottantaquattro. Quartiere Barra. Una strada buia. Fuorimano. Poche auto parcheggiate. In una di queste c’è il corpo di un uomo. Tutti lo conoscono. Tutti capiscono cosa sia successo. Arrivano amici, colleghi. Auto della polizia. Patrizio è morto per overdose. Aveva cominciato con la cocaina e aveva proseguito con l’eroina. Si faceva  quando gli altri si facevano coi peperoni imbottiti e il Napoli. Il buco nel quale si andava annegando giorno dopo giorno si era esteso a tal punto da inghiottirlo completamente, da divorare la sua persona e la sua anima. E addio Patrizio. Addio alle sue canzoni. Alle feste di piazza nelle quali si esibiva. Ai matrimoni, ai battesimi, alle comunioni che aveva allietato. Ai bui paesini dell’hinterland dove arrivavano le sue cassette e i suoi dischi. Alle ragazze che lo ascoltavano sulle radio libere. La sua voce risuona triste ormai solo in qualche casa. Nessuno più se ne ricorda. Solo qualche vecchio fan che canticchia i suoi testi davanti allo specchio o mentre si fa la doccia. Testi che raccontano la gioia e specialmente la sofferenza di chi vive pensando di dover scontare una pena che si trasmette di padre in figlio, una colpa ereditaria da tragedia greca che nessun’acqua miracolosa o unguento magico può lavar via definitivamente. “Saccio pure ca nu ‘iuorno, nun è oggi ma dimane, ce sarrà qualche raggione ca me fa fernì e campà…”. 

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