«Senza chiedere nulla in cambio»: tra perdono e giustizia alla Facoltà Teologica di Capodimonte con il magistrato milanese Gherardo Colombo. Perdono e/o giustizia riparativa? questo il titolo del settimo appuntamento del corso per operatori della pastorale carceraria, che ha visto in cattedra il celebre magistrato Gherardo Colombo. Dopo le lezioni sull’ecumenismo, dunque, un altro interessantissimo incontro del corso di formazione intitolato Perdono responsabile e giustizia riparativa: uno sguardo profetico,promosso dalla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, sezione san Tommaso d’Aquino di Napoli, insieme all’Ispettorato generale dei cappellani delle carceri italiane, l’Ufficio di Pastorale Carceraria dell’Arcidiocesi di Napoli, con il patrocinio del Garante delle persone sottoposte a misure ristrettive della libertà personale Regione Campania.
Gherardo Colombo, il magistrato di Mani Pulite, in una Facoltà Teologica – Zaino in spalla, arriva puntuale, anzi in anticipo, con la proverbiale precisione milanese. Ha fatto il magistrato per trentatré anni (Mani Pulite, P2, delitto Ambrosoli), fino a quando, nel 2007, con una lettera al Consiglio Superiore della Magistratura, ha rassegnato le sue dimissioni. Per questo è stato definito il magistrato pentito: slogan d’effetto, ma forse improprio. «A un certo punto ho sentito che era necessario fare altro, risalire fino all’ingorgo principale». Da allora, con l’aiuto dell’associazione Sulle regole, fondata con alcuni amici nel 2010 e sostenuta dalla Fondazione Pasquinelli, si dedica alla riflessione pubblica sulla giustizia e all’educazione alla legalità. In questa attività incontra ogni anno circa 250mila studenti in tutta Italia e proprio per tale attività ha ricevuto il Premio nazionale Cultura della Pace 2008. Da dieci anni partecipa al corso sulla legalità presso La Nave, sezione di trattamento avanzato per tossicodipendenti del carcere di San Vittore, a Milano. È presidente della Garzanti Libri.
Gli argomenti della lezione, messi a confronto – La cosiddetta giustizia riparativa propone percorsi concreti di riconciliazione anche per persone che si sono rese colpevoli di crimini gravi. Il perdono è un tema tipicamente evangelico e cristiano, ma ha anche una ricaduta laica, sociale, antropologica. «Si può educare al bene attraverso il male? Quali sono le alternative alla punizione e alle pene tradizionali?È un metodo sbagliato cercare di educare una persona facendole del male. Il nostro sistema detentivo non permette di recuperare nella società chi ha commesso dei crimini, ma fa maturare, con le privazioni che infligge, sentimenti di aggressività verso gli altri esseri umani, che portano il 68% dei carcerati a ricommettere un reato una volta ottenuta la libertà: questo va anche a discapito dei cittadini che non si sentono sicuri una volta che questa gente esce di prigione. La giustizia è una parola ambigua: perché significa amministrazione della giustizia ma è anche un punto di riferimento, un valore. Il perdono è una disponibilità a recuperare le relazioni in generale. Una soluzione possibile è la pena riparativa, che mette a confronto la vittima con il condannato, nella ricerca di possibili soluzioni agli effetti dell’illecito e nell’impegno concreto per la riparazione delle sue conseguenze. In tal modo la vittima si vede riconosciuta e riesce ad avere un risarcimento morale, mentre il reo prende atto delle sue responsabilità e pone in essere le azioni necessarie a ricomporre il confitto e a rafforzare il senso di sicurezza collettivo. La giustizia «riparativa» fa capo, invece, a una cultura in cui la persona vale in quanto persona, ha dignità – anzi, è dignità – indipendentemente dai suoi comportamenti buoni o cattivi. Nella visione «riparativa» il centro è la persona, la sua dignità, che rimane integra anche dopo aver compiuto un crimine, la ricerca dell’inclusione, il recupero, la riconciliazione. E le esperienze di giustizia riparativa realizzate nel mondo dimostrano che l’alternativa al carcere è più efficace anche per la sicurezza sociale. Nel sistema attuale le vittime sono abbandonate, forse peggio ancora che abbandonate. Alle vittime non si offre null’altro che il soddisfacimento di un desiderio di vendetta. Ho fatto per più di tre decenni il magistrato. All’inizio della mia attività la mia convinzione era che il carcere fosse utile per assolvere a una funzione educativa, in un quadro di rispetto per la persona. Poi però progressivamente ho riflettuto, ho letto, e ho avuto l’esperienza degli effetti del carcere. L’approfondimento teorico da una parte e l’osservazione della pratica dall’altra. Per me è molto importante vedere come ci sia stata un’evoluzione. L’idea retribuzionista parte dalla convinzione che Dio sia un giustiziere, che punisce. La credenza che questo sia il messaggio delle Scritture è piuttosto diffusa. Io penso che ce ne sia un altro. Non solo nel nuovo testamento, ma anche nel vecchio. Nella misura in cui Dio è un Dio amoroso. Chi è pericoloso deve essere separato, ma la separazione dovrebbe essere mirata a prevenire l’effettiva pericolosità. Mentre solo una piccola percentuale dei detenuti oggi reclusi (circa il 20%) è effettivamente pericolosa. Non è logico, né utile ricorrere al carcere anche per chi non lo è. Nei confronti di chi è pericoloso, la limitazione della libertà di movimento deve però essere modellata caso per caso, e non deve essere accompagnata dalla limitazione, o addirittura esclusione, delle altre libertà fondamentali che non comportino pericoli per la società: il diritto allo spazio vitale, alla salute, all’affettività, all’informazione, al lavoro, all’istruzione».
Treno prenotato per il rientro a Milano alle ore 19.20: consulta il suo smartphone, calcola il tempo e dice: «Da qui, cinquanta minuti per giungere a piedi in stazione». Guarda l’orologio, conclude la lezione, e così ci saluta: «Vado via a piedi, Napoli la voglio vivere fino in fondo».