Philip Schultz (1945) abita la lacerata progressione di un’emersione rilanciata, condensa il proprio tracciato in una prossimità dolorosa e rilucente, affermando, infine, una domanda invocata e risplendente, che se da un lato, professa l’affioramento del proprio peculiare cammino esistenziale, dall’altro approda a una prospettiva umana e sociale, in cui soffermarsi sulla «appartenenza a una famiglia di ebrei immigrati dalla Russia e dalla Polonia nell’America del xx secolo; la riflessione sulla fragilità dell’essere umano; l’empatia con il mondo marginale; il conflitto tra aspettative e realtà. Indimenticabili le figure dei genitori, trasformate nei suoi versi in archetipi di una storia che va oltre i confini familiari, la madre, «le dita rosse e gonfie / per i tagli della carta, / gli occhi, fondali neri», e il padre, specchio negativo del suo io frustrato» (Paola Splendore).
Per Donzelli, sono usciti quasi in contemporanea, il suo volume Erranti senza ali, opera curata da Paola Splendore e tradotta da un poderoso team di traduttori, parte nevralgica del suo libro più importante Failure (Fallimento), vincitore del premio Pulitzer per la poesia del 2008, e il racconto autobiografico La mia dislessia, ora in edizione ampliata.
La ricostruzione di un percorso di marginalità doppia di un bambino ebreo, cresciuto in un quartiere povero di New York e affetto dalla dislessia che gli impedisce di leggere e di scrivere e di imparare persino la lingua di Dio.
Maltrattato e schernito dai suoi compagni di classe, finisce, relegato, nella “classe dei cretini”, dove, come rivela in una intervista recente ad Alessandro Zaccuri su “Avvenire”, «dove ci si limitava a tenere un libro aperto sul banco e far finta di imparare».
Afferma Valerio Magrelli:
«In realtà ha ricordato Elisabetta Bolondi, Schultz ha capito di essere dislessico solo dopo la diagnosi, fatta in età precoce, al proprio figlio. Egli comprese allora di non essere un “cretino” (condannato così all’ansia e alla scarsa autostima) bensì semplicemente un “malato”. La rivelazione innesca un processo inverso, in cui il deficit si rovescia in forza, in «arma segreta». Citando il poeta israeliano Yehuda Amichai («Per tutta la vita ho amato inutilmente / quello che non ho imparato»), Schultz ripercorre il cammino verso la salvezza. Se il modo di pensare di un dislessico è «compensatorio, tortuoso, bizantino», o meglio, «dolorosamente allineato», una volta cosciente, l’individuo può trasformare le proprie mancanze in vantaggio».
Attingendo a questa esperienza di limite e rilucente comparsa, in cui lo spazio della solitudine diventa risoluto steccato interiore e germoglio («Che diritto avevo io», dirà a R. A. Sharp, «figlio unico di emigranti, gente di classe operaia priva di istruzione, di voler essere poeta, addirittura immaginarmi in un modo così grandioso?»), Luca Stanchieri così commenta:
«Aveva scoperto la sua vocazione, la sua passione e missione proprio in ciò che più aveva difficoltà a fare. Per scrivere bene, bisogna leggere e tanto. Anche i più favoriti devono affrontare i limiti quando l’asticella della difficoltà si alza di livello. Ma un dislessico, soprattutto quando non sa di esserlo, affronta sin dalla più tenera età delle sfide enormi che per gli altri sono sciocchezze. Deve sempre trovare soluzioni efficaci a frustrazioni infinite. Deve sempre far i conti con la più crudele delle vergogne. Insomma, deve allenare quella facoltà umana che si può definire, come ha fatto Hillman, la forza del carattere. Trasformare ogni limite, ogni errore, ogni ostacolo, ogni senso di inferiorità in una sfida aperta; trasformare uno svantaggio in un punto di forza grazie allo sviluppo delle proprie potenzialità personali. Mettere in atto quella che Adler, in polemica con Freud, chiamava volontà di potenza, ovvero quell’ambizione a trasformare un limite in un talento. Volontà di potere non è desiderio di comando, ma motivazione ad accrescere le proprie possibilità di realizzazione. Schultz ha subito umiliazioni, disprezzo, rifiuti; li ha persino interiorizzati. Avrebbe potuto trasformarli in un risentimento profondo, in una strategia vendicativa alla ricerca di capri espiatori; avrebbe potuto allenare un profondo disprezzo per sé e per gli altri, pronto a esplodere in atti crudeli o a evolversi in una depressione profonda. È invece, grazie al sostegno affettivo e ambizioso della madre, ha mantenuto intatta la motivazione a essere riconosciuto, apprezzato e stimato; voleva esserlo a tutti i costi; cancellare quel periodo di disconoscimento nel riscattarsi. E c’è riuscito grazie alla propria opera».
E allora la parola entra in uno scoperchiato e docile fallimento, dove il cuore pulsante dell’espressione è l’esito di un territorio incerto e vibrante, in cui inseguire la pienezza, la centralità di un limite lucente e il tratto recitato del tempo: «Sono cresciuto in un mondo in un certo senso primitivo, in cui non c’erano libri né musica né arte, un mondo in cui l’unica arte possibile era la sopravvivenza. Era il mondo spesso pieno di rabbia dell’immigrazione, e le notizie dell’Olocausto e le conseguenze della guerra aggiungevano un’urgenza particolare al mio modo di percepire le cose. Non c’era posto per la poesia in questo mondo, forse ci si poteva guadagnare da vivere scrivendo romanzi, o saggi, ma non con la poesia».
Il suolo della poesia è, quindi, uno sguardo di se stessi a distanza, una dolorosa lettura del margine mai obliato, la sopravvivente creatività dell’essere: «Mi porto dietro chiavi d’ogni colore, / versatili e rivelatorie, / delle case dei miei clienti, / dove mi aggiro per / stanze enormi, / siedo ai loro tavoli eleganti / leggo in studi tappezzati di libri / al bagliore vellutato / delle applique a conchiglia, / mi dondolo davanti a finestre sontuose, / tamburellandomi la schiena con le dita, / la mia mente, sempre sospesa / e rivolta a cose / più interessanti, si gode / la diversità umana, / gli echi bisbiglianti / e il piumaggio variopinto / dei miei compagni esploratori / così ansiosi di sfidare la sorte, / finchè non è l’ora di portare a spasso / Adolph e Napoleon, / che non hanno mai / una parola scortese / per nessuno».
Il fallimento che innerva il tratto poetico di Schultz non è già una rinuncia, come se la debordante materia dell’essere fosse via imprendibile, bensì è voce non sopraffatta di memoria e origine. Ma se fallimento di tratta è indicibile proprietà del quotidiano, i rapporti, le figure care, le relazioni, il dolore e il limite diventano il bilancio esistenziale di un lungo monologo come culmine di altezza radente.
Scrive Roberto Galaverni:
«Fin dalla giovinezza la parola in quanto tale viene sentita da Schultz come qualcosa di elevato, come il superamento della propria parte malata e del degrado familiare, come il miraggio di un’identità diversa e migliore. Semplice ma essenziale, elementare ma incontestabile, il suo modo di essere poeta sta tutto qui: la poesia viene intesa di volta in volta come possibilità di chiarificazione, affioramento, comprensione, medicamento, riparazione di una ferita esistenziale e psichica difficilmente saturabile; eppure in questo procedimento che ambisce niente di meno che a una chiarificazione e a una pacificazione interiore, il poeta arriva a definire un’immagine del mondo e delle cose che va ben al di là di se stesso».
Ed ecco che, come sostiene Paola Splendore, nel silenzio di «un dog-walker di New York, alter ego dell’autore, esprime una sua filosofia minima di vita, una visione dal basso, ad altezza di cane si direbbe. Un mondo senza ali, privo di trascendenza», dove le aree poetiche si articolano secondo piani-sequenza del territorio cittadino, «l’aera dei cani del parco di Washington Square, a Manhattan, e la mente del narratore oppressa da ricordi drammatici e insopprimibili. Al seguito dei cani a lui affidati, dai nomi Gogol e Napoleon, Niagara e Tallulah, l’uomo si aggira tra i frequentatori abituali del parco, baby-sitter, pattinatori, barboni, e altri dog-walker chiacchierando di cani ed esaltando la loro superiorità rispetto agli umani»:
«Il fatto è che i cani / non credono / di essere geni (specialmente / quelli che lo sono). I cani / non nascondono i giudizi, / non coltivano opinioni, / non mettono in campo i loro difetti, / non si paralizzano / per la nostalgia, / né scompaiono / nel loro delirio. / Offrono a noi, / i loro compagni stranieri, / la possibilità di / essere ovunque / e in nessun luogo al tempo stesso, / tra le alte / e basse stranezze / del nostro procedere bislacco. Per questo / possono starsene / in disparte, / in attesa, sempre in attesa / di un segno…/ da noi… / solo / da noi…/ e così / sentirsi appagati».
O ancora come se il loro ululato fosse una sinestesia di grido che cerca di strapparsi dal buio, rovesciando il limite austero della propria malattia: «I cani, per natura, / non sono dispettosi. / Non portano rancore. / Li puniamo, esaltiamo e tormentiamo / come fossero noi. Ma perfino / noi non siamo noi. (Nessuno lo è). / Siamo tutti parte di un branco, / eseguiamo le nostre variazioni / dell’ululato della solitudine, / implorando / i nostri fratelli e sorelle / di unirsi a noi / nel canto della tribù. / Nessuno vuole vivere / nel bosco buio, / fuori di sé, / solo nella notte. / Chi porta a spasso i cani sa / come unirsi / all’ululato di un cane».
Questo mondo, così composito in tutto il suo scontroso bagliore vellutato, si distende attraverso il memoriale di un nascondimento canino, di una ferita che insegue la mente e si appropria della vertiginosa scorza del passato incipiente, svolta nel respiro spezzato del padre, nell’ «aura vuota del passato», nelle ferite della mente e negli elettroshock colpiti, in Rusty, il cane della sua infanzia, nella depressione («Perché amava un cane? / Perché amava un luogo / che, suo padre diceva, / non lo avrebbe mai amato? / Perché aveva fallito / in tutto quanto? / Ho capito che i suoi occhi / da come erano chiusi strettamente, / non riflettevano niente. / Ho capito cosa / si prova ad essere / tanto depressi / da non poter respirare; / odiare il cibo che mangi; / sentire il tuo nome / masticato e sputato / dalla bocca di un altro; / volere tutti morti; / far saltare in aria / tutto il fottuto mondo»), nell’ospedale che sfalda («Lo scorso settembre / in ospedale, / mentre i miei compagni / ruminanti dormivano / nell’ombra, / le mascelle masticavano / furiose il bolo / dei loro sogni, / mi chiesi: se il nulla / è il posto da cui provengo, / a cui tornerò, e / a cui ho diritto, / cos’è che / ho tanto temuto / di perdere?»), nel suicidio tentato, e nell’inferno delle Torri Gemelle («le grandi assenze gemelle / che tutti fingiamo / di non notare più…»), quando, racconta il poeta, «gli ospedali avevano svuotato in fretta e furia i reparti psichiatrici. Eravamo tutti sotto shock, in quei giorni, ma tra di noi c’era qualcuno che aveva appena ricevuto un trattamento d’urto e adesso vagava per le strade della città»: «Mi svegliai fluttuando / nel reparto psichiatrico del Saint Vincent, / su un fondale roccioso, / una ghianda inerte, sotto / una tenda di lenzuolo, qualcuno / all’altro capo del tempo / cantava l’aria / di Madama Butterfly / come andava cantata. / È così che / ci si sente da morti, / mi chiesi, / un falso alleluia, / un turbinare, guizzare / e traboccare, / non cercare più / di essere qualcosa / di più o di meno di / un inizio, / un centro, o una fine? / Poi, quasi / subito dopo, / mi buttarono fuori / sulla strada. / Ci servono i letti, / dissero i dottori. / C’è una grande emergenza».
È una poesia di gesto e di gesti inseguiti, accartocciati, erranti. Come il riferimento alla diaspora ebraica che ferma il titolo ed espone questa indocile erranza dell’umanità intera, come scena dello spettacolo di Dio alla sua rappresentazione di «esseri che vagano senza meta come a scontare una condanna originaria, ossessivamente ripiegati su se stessi, destinati a ripetere errori, accumulare frustrazioni» (Paola Splendore).
Il tremore rasoterra della luce è un’ombra a ventaglio sulla distruzione della realtà tangibile, sul crollo fantasmatico della coscienza dilatata di una mite luce azzurra e del tempo prosciugato: «Lo scorso settembre, / nella mite luce azzurra / me ne stavo tremante in / pantofole azzurre, / pigiama grigio a strisce, / a fissare / le foglie inconsolabili / di un ginkgo, / cercando di apprezzarne / le ombre a ventaglio / mentre persone travestite da fantasmi / mi correvano incontro / dal tumulto urlante / della mia coscienza dilatata».
Il mondo di Schultz non è annullato e non finisce per annullarsi. È incandescenza di vetro e atterrita nel cielo liquefatto e di oblio. Si posa nell’allarme e nell’avvertimento, invita allo spettacolo che Dio mette in scena nel mondo, forse un grido disperato sulla voragine, forse una gola spiegata con la testa rivolta al cielo dove «una sottile polvere grigia / turbinava / sferzava / e ululava / ricoprendo tutte le nostre anime, / che, visibili ora / e senza ali, / si libravano / in alto, / finalmente / disperate quanto basta»:
«È l’ora in cui il nemico di Niagara / passa facendo jogging e tutti i cani / corrono come i camion dei pompieri / a sirene spiegate. / Mentre passa, il nemico di Niagara / sogghigna, trascinando / ola sua decrepita ignoranza. / Perfino Gogol corre, nonostante / l’artrite. Al mondo per me / non c’è niente di meglio / che guardare correre i cani, / la lingua penzoloni, le orecchie sventolanti, / il cuore che gli scoppia / contro le costole! E adesso, / quasi a compensare l’assenza, / stanno tutti cantando più forte, / un suono così puro / che si riesce a sentire perfino / l’urlo sgraziato di Limerick. Sì, / devo unirmi a questo canto della tribù, / questo grande canto di solitudine, / cantare a gola spiegata, / la testa rivolta al cielo, / oltre il quale turbina / la notte di New York, / mentre ciascuno di noi, solo e insieme, / canta ancora più forte, / finchè non resta altro / che il suono delle nostre voci / e il silenzio eloquente delle stelle».
Sembra, anzi, che in questa deriva trasognata e, allo stesso tempo, devastata («Lo scorso settembre / un buon numero / di elettroni rabbiosi / mi sono rimbalzati / nel cervello / mentre scendevo per / una strada devastata / dopo l’altra, la fuliggine / luccicante sulle mani / e sulle scarpe, chiedendomi / se ero di quelli / che invocano Dio in un’emergenza / e poi se ne vergognano / per tutta la vita…»), si nasconda sempre una apertura vibrante tra i pezzi sparsi, come una miseria resa scintillante dal Dio ricercato nel dolore nero, sotto il marciume, attraverso il rimpianto, la compagnia, il sogno del volto disprezzato e premuto dall’abisso: «Era questo il fallimento – / una paura senza fine? Con il volto / premuto contro le sbarre fredde, / ogni muscolo / si rilassò nell’universo / e l’urina prese a scorrermi calda / e libera giù / per le gambe / verso l’inferno».
Schultz P., Erranti senza ali, a cura di Paola Splendore, Donzelli, Roma 2016, pp. 108, euro 14.