E se un giorno cadesse cibo dall’alto, come la manna biblica o come nel dopoguerra sfamato dai pacchi del Piano Marshall? Cosa accadrebbe se sul nostro secolarizzato, evoluto, civilissimo 2012, piovessero d’improvviso generi alimentari? Nella mattinata del 21 Marzo dal cielo di Caserta son piovute giù poesie.
Parole in versi, stampate su foglietti colorati in formato segnalibro: ecco il pane quotidiano catapultato su una città anestetizzata all’occorrenza dal caos o dalla noia. Il supporto economico della Provincia di Caserta, e la collaborazione del Club Unesco Caserta e dell’ Aeroclub Volturno, che ha messo a disposizione i suoi aeroplani per la singolare missione di pace, hanno dato vita all’idea di tre associazioni culturali: La Zattera, Il Pilastro e La Ginestra.
Aldilà del cielo, abbiamo provato a descrivere cosa sia accaduto in terra, e precisamente sul suolo casertano prima, durante e dopo il volo delle 21 Poesie per il 21 Marzo.
Prima. Ovvero il sabato di un villaggio inerme e fanfarone. Sono le ore 12.05. Attraversiamo Corso Giannone per dirigerci verso Piazzale Carlo III, ossia quello che sappiamo essere il fulcro dell’imminente lancio di poesie. Brulicante e trafficato come sempre, il Corso è un tragitto breve ma intenso, fatto di palazzi storici, noti a tutti i casertani: la Chiesa di Sant’Antonio da Padova, lo storico liceo Pietro Giannone, e poi la scuola elementare De Amicis, dinanzi alla quale campeggia da mesi il vuoto di un edificio, abbattuto perché pericolante da molti anni. Non ci sono donzellette ad aspettarci all’ingresso dei giardini della Reggia, ma solo una giovane custode che ci guarda attonita quando le chiediamo se le poesie che verranno lanciate cadranno anche sui giardini della Reggia. Non ne sa assolutamente nulla. Ringraziamo ed avanziamo. Siamo già oltre le polveri sottili denunciate dai genitori degli alunni della De Amicis ed i camion parcheggiati per raccogliere abusivamente i residui d’amianto in pieno centro. Oltre i giardini, all’altezza della Questura, imbocchiamo Via De Gasperi e ci stupiamo quasi, perché i cumuli di spazzatura al limite del marciapiede sono più piccoli del solito e i bidoni divelti in terra offrono ancora lo spazio per gettare le carte di una caramella mangiata distrattamente. Lo zucchero serve anche in una mattinata improvvisamente calda come questa. Arriviamo a Piazza Carlo III e nelle aiuole antistanti la Reggia decine di ragazzi assiepati aspettano l’evento. Fanno parte delle scolaresche coinvolte nel progetto.
“…I fanciulli gridando
Su la piazzola in frotta,
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore (…)”.
Molti sono mano nella mano. Alcuni non fanno fatica a divincolarsi dall’occhio dei professori. Centinaia di ciglia smuovono aria sul cielo là sopra. Qualche voce racconta l’ultima puntata di Uomini e Donne. Qualche occhio semplicemente attende che arrivi la pioggia di versi che stamattina ha graziato il corrispondente sistema nervoso centrale da qualche interrogazione.
Durante. Ovvero Sotto il velo del cielo oscurato dall’ombra della Reggia. Pochi istanti dopo le 12.30. Quanto basta per sentire il volteggiare delle pale dell’elicottero che tagliano in lungo e largo una delle piazze più grandi d’Europa, e finalmente sono su noi: da lontano sembrano stormi di coriandoli imprecisi, ma, man mano che atterrano, si posano leggiadre e dinamitarde sui trifogli incolti delle aiuole. Sono le parole di poeti: forti, ma che non schiacceranno nessuno; taglienti, eppure incapaci di torcere una sola foglia; travolgenti, perché è impossibile prevederne la traiettoria e chiunque sia sotto di loro potrà rimanerne colpito. Parole che vengono da lontano, come Le Rondini di Lucio Dalla, e passano per l’inno Voler Vivere del tunisino Abu’l Qàsim Al Shabbi, per arrivare ai versi taglienti di un Charles Bukowsky che consiglia di cavalcare la vita fino alla risata perfetta, poiché è l’unica battaglia giusta che esista.
Parole che sanno di storie, di luci offuscate ed ombre squarciate, di lacrime calde di rancore e sorrisi finti d’amori mai nati. Mentre cadono sui vapori della pizzeria sapranno soprattutto di arancini e fritto misto, ma anche questo significa vivere qui ed ora.
“Addò t’annascunne….si t’annascunne?…
C’è una piega sottile nascosta nell’universo,
ai margini del mondo,
è una processione di anime dimenticate
che sussurrano tra le costellazioni”.
Così cantava la Nuova Compagnia di Canto Popolare. Stamattina non c’è alcun motivo di nascondersi, né la mole della Reggia fa ombra abbastanza per occultare il desiderio infantile di rincorrere i versi piovuti dall’alto.
La corsa verso la propria poesia è lo specchio della diversità e del senso del tempo. Alcuni studenti si affannano in una caccia all’ultimo bigliettino, certi che quei versi cambieranno la loro giovane vita, nella stessa misura in cui quest’ultima ha appena fatto capolino da uno zainetto colorato.
I professori di mezza età preferiscono attendere invano che un po’ di venticello faccia il suo dovere, ma sempre senza sporcarsi né mani, né abiti seminuovi. Se la poesia è lì a due passi, bene. Altrimenti qualcuno dei presenti provvederà ad offrire gentilmente un doppione. E se neanche ciò accadesse, poco male: a casa le librerie pullulano di frasi scritte e pronunciate a suo tempo in altre scuole, per far contenti altri professori di cui si è riempita e poi svuotata la memoria.
Poi c’è il contraddittorio fare di chi è in avanti con gli anni. C’è il signore che vende calzini, si china a raccogliere un’inutile banconota di metafore di cui un attimo prima ignorava l’esistenza, poi la guarda dubbioso e cerca lo sguardo di qualcuno per potergli cedere quel pezzetto di carta che pensa essergli di troppo. Quando gli dico che sua moglie apprezzerà di certo quell’omaggio sceso dal cielo, fa finta di crederci e accetta, poco convinto, di tenere con sé il foglietto.
Ancora, c’è il buon Aldo Altieri, professore di lettere in pensione. Entusiastico portavoce anonimo dell’iniziativa, ora sgambetta come un bambino che sta facendo a gara con se stesso pur di accaparrarsi quante più poesie possibile. Ma non le terrà per sé: gli serviranno per diffondere tra amici e conoscenti il fuoco sacro della musa immortale.
Dopo. Ovvero la tempesta dopo la quiete. Sono le ore 13.00 e la via del ritorno ci appare molto più lunga di quella dell’andata. L’ora di punta è costellata di ragazzi che escono da scuola, di marciapiedi occupati da motorini, di macchinoni parcheggiati in doppie file. Ci siamo lasciati il palchetto montato apposta per qualche proclama del solito politico che non perderà occasione di vantarsi per i debiti di cui ha ricoperto un comune dissestato.
Su Via Gasparri a una nonnina è caduta una delle poesie dal personale bottino-blocchetto che regge in mano. La scorgiamo da lontano, mentre si china a raccoglierla, rivedendosi nella sottana leggera di un abito nuovo, ragazza degli anni cinquanta che raccoglie un fiore caduto dal mazzolino che il suo moroso le ha donato di nascosto.
Dalle cancellate di Corso Giannone che costeggianola Reggia, le siepi d’erbacce che spuntano oggi avranno dei nuovi inquilini oltre alla plastica: sono i bigliettini di poesie cadute poco prima. Qui, evidentemente, nessuno ha fatto a gara per raccoglierle.
Più in là lo stuolo di giovanissimi che freme per tornare a casa ci ricorda che, oltre le nubi di smog e cemento, c’è sempre un breve tempo leopardiano in cui “si rallegra ogni core”. Quanto duri non ci è dato saperlo. Per oggi, a Caserta, potremmo illuderci di esserci nutriti, una volta tanto, di sola poesia.