Si può essere toccati da un Evento? O meglio da un Avvenimento? Nella nostra società il Natale è diventato sentimento, folklore, rito e non più fatto eccezionale. E’ come se gli interessi della vita fossero, per così dire, altrove. Ma esso rimane “fatto”, proprio perché l’umanità, attraverso i suoi testimoni, è stata afferrata da un fatto che muove la vita, accaduto proprio all’improvviso e atteso da pochi. « Che parte recitiamo? quella dei pii pastori che s’inginocchiano? dei magi che portano doni? (D.Bonhoffer)». Riecheggia stupita la ferita di Pasolini, ricolmo di domanda, in questa notte: «gioia, gioia, gioia… C’è ancora gioia in quest’umida notte preparata per noi?». Se lo chiede anche Pasternak nel dottor Zivago, in pagine ancora oggi pregne di significato universale: «Ed ecco che in quell’orgia pacchiana d’oro e di marmi, venne lui, leggero e vestito di luce, ostentatamente umano, volutamente provinciale, galileo, e da quel momento i popoli e gli dèi cessarono d’esistere e cominciò l’uomo, l’uomo falegname, l’uomo agricoltore, l’uomo pastore di un gregge di pecore al tramonto, l’uomo il cui nome non suonava minimamente fiero, l’uomo celebrato con riconoscenza da tutte le ninne nanna materne e da tutte le gallerie di pittura del mondo». Ma la “follia” di Dio, come erano soliti chiamarla alcuni Padri della Chiesa, ha in Jacopone da Todi, il supremo cantore della carità, l’apice dell’umana tensione all’Assoluto, cifra specifica dell’umano e infinita storia d’amore senza confini: «En Cristo è nata nova creatura, spogliato l vecchio om, fatto novello; ma tanto l’amor monta con ardura, lo cor par che se fenda con coltello; mente con senno tolle tal calura, Cristo me trae tutto, tanto è bello!». Ritornano alla mente i versi di Dante, carichi di segreta attesa e desiderosi di quiete: «Ciascun confusamente un bene apprende/ nel qual si queti l’animo, e disira:/ per che di giunger lui ciascun contende». Attesa. Attesa di campane che scocchino l’ora di una dignità nuova, di un sentire nuovo che non si perda nella solitudine di passi su selciati ombrosi di tenebra, come suggerisce Guido Gozzano. E’ come se ci fosse un desiderio di beneficiare non di un ricordo ma di una memoria viva di un’appartenenza al concerto dell’umanità: «noi possiamo vivere nei canti degli angeli, nella gioia dei pastori, e nella devozione degli uomini saggi. Possa il mattino di Natale renderci felici di essere tuoi figli»(R.L.Stevenson). C’è anche un ritorno all’infanzia, al tempo in cui l’arrivo degli zampognari era il simbolo di un annuncio imminente. Il suono delle “ciaramelle” accompagna la novena al Natale. E il cuore di Giovanni Pascoli vibra ancora di quell’aspettativa di festa, sebbene vissuta nello spessore adulto, ma ancora gonfia di lacrime per una nostalgia vedova, per un antico tumulto di fanciullo in ascolto della voce dell’universo: «Non più di nulla, sì di qualcosa, /di tante cose! Ma il cuor lo vuole, /quel pianto grande che poi riposa, /quel gran dolore che poi non duole: /sopra le nuove pene sue vere /vuol quei singulti senza ragione: /sul suo martòro, sul suo piacere, /vuol quelle antiche lagrime buone!». Nel 1916 durante una licenza a Napoli in casa di amici, Ungaretti scrive il suo Natale, in pausa dalla guerra. E’un uomo stanco che chiede di essere lasciato in un angolo, dimenticato, al caldo del camino. Il soldato e l’uomo straziato dal conflitto cercano la pace della protezione preziosa e in quelle “quattro capriole di fumo” c’è tutto il paesaggio interiore di Ungaretti, la solitudine del tempo, il suo sentimento del tempo, naufrago. Lo stesso desiderio di pace, di sosta dopo il peregrinare umano nelle lande dello spazio e del tempo c’è in Quasimodo. Il suo è un anelito attorno ad un simbolo e a una memoria viva: il presepe. «Pace nella finzione e nel silenzio/
delle figure in legno ed ecco i vecchi/ del villaggio e la stalla che risplende/ e l’asinello di colore azzurro». Ma nonostante questo anelito, il cuore vive il contrasto di un’epoca senza ristoro, anche con Cristo sono venti secoli che il fratello si scaglia contro il proprio fratello e Quasimodo si chiede, senza risposta, se esiste ancora qualcuno che ascolta il pianto del bambino che poi sarà crocifisso tra i due ladroni. Capita però che in un tepidario lustrante di un caffè, si possa udire il grande frastuono nella via e il passaggio de “le nuove Sirene”, ossia le donne ingioiellate e piene di lustrini che fanno capolino in questo luogo-non-luogo. E’ questa l’atmosfera natalizia descritta da Montale. Desiderio di condivisione con l’amico Camillo, amico “storico di cupidigie e di brividi”, da un lato, e dall’altro «un mondo gnomo ne andava/ con strepere di muletti e di carriole,/tra un lagno di montoni/ di cartapesta e un bagliare/ di sciabole fasciate di stagnole». Ma i sogni e le fiabe sono destinati a terminare come il passaggio di un rumore del gregge spaventato dal tuono e «(…) la pastura/ che per noi più non verdeggia». Esiste anche una esclusione dalla festa, uno starsene in disparte, in un andamento sinfonico rauco, come lo descrive Leonardo Sciascia, dove a Regalpetra, i ragazzi vivono la loro quotidianità essenziale e divina, fatta di piccoli pasti e caramelle, di mancata spensieratezza ma di dignità assoluta: «La mattina del Santo Natale – scrive un altro – mia madre mi ha fatto trovare l’acqua calda per lavarmi tutto».
La giornata di festa non gli ha portato nient’altro di così bello. Dopo che si è lavato e asciugato e vestito, è uscito con suo padre “per fare la spesa”. Poi ha mangiato il riso col brodo e il cappone. “E così ho passato il Santo Natale”. Quadro di umanità aggrappato al cielo.