La parrocchia dei SS. Pietro e Paolo di Ponticelli conferma ancora una volta la particolare vocazione di preghiera e di approfondimento del mistero di Israele, in particolare nella sua relazione con Gesù, nella profezia contenuta nelle feste del Signore, nella preghiera con il corpo attraverso la danza biblica, nel suo ruolo centrale riguardo alla manifestazione della gloria del Signore Gesù negli ultimi tempi.
Sottolineare e ribadire l’ebraicità di Gesù di Nazareth significa proclamare la nostra fede nel mistero dell’incarnazione. Il Verbo eterno di Dio, il Figlio di Dio, non si è incarnato in una umanità generica, in un tempo indeterminato, ma si è incarnato in un popolo, in una storia, in una cultura, in una terra ben determinata; insomma Gesù si è incarnato tra gli uomini, assumendo la concretezza umana dell’ebreo: Il Verbo si è fatto ebreo e ha posto la sua tenda in mezzo al popolo d’Israele.
Da quando il Concilio Vaticano II, nella dichiarazione Nostra Aetate, ci ha fatto riscoprire le radici ebraiche della nostra fede, sentiamo l’urgenza di aiutare il popolo di Dio nell’approfondimento delle radici dell’ulivo buono dove noi, rami dell’oleastro, siamo stati innestati, facendo ogni sforzo, mettendo tutto l’impegno pastorale e spirituale per aiutare i fedeli a crescere in questa scoperta dell’ebraicità della nostra fede. Come afferma S. Paolo: «È la radice che porta te» (Rom 11,18); … «E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa» (Gal 3,29).
Senza Israele noi cristiani saremmo come un albero senza radici. Il famoso teologo e pastore riformato Karl Barth già dagli anni Trenta andava affermando: «In definitiva, un solo problema è davvero grande nel campo dell’ecumenismo cristiano: il rapporto con Israele. Il cristianesimo e le chiese devono prima di tutto ricucire lo scisma con la Sinagoga».
La Dichiarazione Conciliare Nostra Aetate promulgata nel 1965 ha segnato l’inizio del cambiamento di mentalità della Chiesa nei riguardi di Israele, dopo secoli di incomprensioni. Il punto 4 della Dichiarazione ha questo straordinario inizio: «Scrutando il mistero della Chiesa il Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di David». La Chiesa non può dimenticare di aver ricevuto la Rivelazione per mezzo d’Israele; non può dimenticare di essere l’ulivo selvatico che è stato innestato sull’ulivo buono che è Israele; non può dimenticare che agli ebrei appartengono l’adozione a figli, la gloria, le Alleanze, la Legge, il culto e le promesse. Non può dimenticare!
Quando Papa Giovanni Paolo II incontrò i rappresentanti della comunità ebraica di Magonza, il 17 novembre 1980, citò la dichiarazione sul rapporto della Chiesa con l’ebraismo scritta dai Vescovi della repubblica federale tedesca. All’inizio della dichiarazione i vescovi avevano posto questa affermazione: «Chi incontra Gesù Cristo, incontra il Giudaismo». Questa affermazione, disse il Papa, vorrei farla anche mia. Sempre Giovanni Paolo II, nell’allocuzione tenuta durante la storica visita nella Sinagoga di Roma il 13 aprile 1986 dichiarò: «La religione ebraica non ci è estrinseca, ma in certo qual modo, è intrinseca alla nostra religione… Siete i nostri fratelli prediletti e, si potrebbe dire, i nostri fratelli maggiori».
Inoltre, questo impegno spirituale e pastorale è uno dei motivi che ci aiuta a tenere alta la tensione dell’attesa della venuta di Cristo. In questi tempi si registra con grande sofferenza una caduta della tensione escatologica nella vita della Chiesa. Non viviamo più, non agiamo più in funzione dell’attesa dello Sposo. Mancando questa tensione, ci chiudiamo in noi stessi, e quello che facciamo ha il sapore solamente di un inutile affannarsi per guadagnare il mondo intero ma senza Cristo. La preghiera per Israele ci richiama continuamente alle realtà ultime. Perché quando i nostri fratelli maggiori riconosceranno, per grazia di Dio, che il Messia che loro ancora attendono è l’ebreo Gesù di Nazareth, morto e risorto e che siede ora glorioso alla destra del Padre, allora e solo allora, come dice S. Paolo nella lettera ai Romani, ci sarà la resurrezione dei morti e vedremo finalmente compiersi la visione di Giovanni descritta nell’Apocalisse: vidi la nuova Gerusalemme, venire dal cielo, come una sposa pronta per il suo sposo. Questa Gerusalemme messianica ha dodici porte con sopra scritti i nomi delle dodici tribù di Israele e ha dodici basamenti ognuno col nome di uno dei dodici apostoli dell’agnello. La Gerusalemme del cielo, quella libera che è nostra madre, si presenta nella sua bellezza ed armonia fondata nell’unità tra Israele e la chiesa.
con il contributo di Don Raffaele Oliviero
Parroco SS. Pietro e Paolo di Ponticelli (NA)