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Produrre Sicurezza, un’indagine sulla Polizia

produrre sicurezza

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una ricerca empirica sulla Polizia di Stato, che ponga al centro la soggettività degli attori, come membri, sì, di un’organizzazione, ma consapevoli, capaci di autodefinirsi e di incidere sui processi di mutamento. In questi termini “Produrre Sicurezza – Agenti, Assistenti e Primi Dirigenti della Polizia di Stato di fronte ad una società in cambiamento” intende andare oltre i tradizionali approcci organizzativi e politico-giuridici allo studio delle forze di polizia, per calarsi al livello degli operatori della sicurezza e dell’ordine pubblico: la loro identità sociale e professionale, la percezione del proprio modo di operare e dei rapporti con la società civile e con le polizie locali, divengono una proficua chiave di lettura di un potere socialmente costruito.

Nato nell’ambito del Progetto PRIN 2008 “Costituzioni e sicurezza dello Stato: scenari contemporanei e linee di tendenza”, il volume presenta i risultati di una vasta indagine condotta dal gruppo di sociologia dell’Università degli Studi “Roma Tre” sulle opinioni e le valutazioni dei “poliziotti”, a diversi livelli di carriera, in merito a problematiche e tendenze del “fare polizia” nonché sulle conseguenze rispetto alla costruzione dell’identità professionale e sociale.

Sulla scia delle suggestioni inglehartiane tratte dalla World Values Surveys, Francesco Antonelli descrive i campioni “Agenti/Assistenti” e “Primi Dirigenti” in funzione dei loro orientamenti rispetto ad una batteria di items ideati ad hoc: sono i “post-materialisti” a prevalere (sebbene non nettamente) su “materialisti” ed “ibridi”, facendo luce su un certo conservatorismo post-materialista quale base culturale dell’identità degli intervistati. Quanto all’identità professionale, essa appare come la risultante di un intreccio tra identità attribuita dal sistema di potere istituzionalizzato, identità attribuita dai gruppi di riferimento e “identità per Sé”, costruita nella pratica. È un modello di “Polizia del cittadino”, piuttosto che di “Polizia del Re”, ad essere veicolato dall’ideologia ufficiale della Polizia di Stato e a prevalere del processo di definizione del Sé.

Laura Giobbi mostra come la costruzione di un’auto-immagine dell’organizzazione come amica e al servizio del cittadino, derivi dall’interazione tra opinione pubblica, comunicazione istituzionale e media. Si tratta di un processo di costruzione lento e travagliato, efficacemente sintetizzato dal “paradosso del poliziotto” di Loubet del Bayle: «Nel suo rapporto con la società e il suo ambiente, [egli] deve essere contraddittoriamente vicino e lontano, integrato e separato».

La sicurezza come nozione plurale, “aggettivata”, “multilevel”, interagente con una molteplicità di istituzioni, attori e ordinamenti e, perciò, definibile sia come grado con cui un sistema riesce a svolgere le proprie funzioni in condizioni di rischio accettabili e sia come livello di garanzie di cui possono beneficiare beni e diritti individuali. Sulla base di questa preliminare definizione del concetto di sicurezza, Maria Luisa Maniscalco approfondisce la proposta di una Polizia di Stato come “nodo di accesso dell’affidabilità” e, per tale via, perno dell’integrazione sociale, garante di un “senso di sicurezza” che si concretizza nell’equilibrio tra affidabilità e accettabilità del rischio: il poliziotto ̶ pur restando custode di legalità, ordine pubblico, sovranità statale sul territorio ̶ si orizzontalizza, aprendosi ad istanze, dinamiche e conflitti della società civile. Declinata in termini concreti, tale duplicità di ruolo impone un confronto non solo con le tradizionali minacce (terrorismo, criminalità organizzata, corruzione, immigrazione clandestina, microcriminalità, movimenti, tifo violento, disordine urbano), ma anche con la reale percezione, da parte degli operatori, del “senso di sicurezza” della società civile e delle dinamiche attraverso le quali la “Polizia del cittadino” costruisce un tale senso. Abbiamo a che fare con un’organizzazione in piena transizione, dunque, da una Polizia di Stato come “forza” ad una Polizia di Stato come “servizio”.

Ne consegue una necessità: quella di costruire la sicurezza dal basso, non solo coinvolgendo la società civile, ma anche realizzando efficaci politiche sociali. Su questo aspetto Valeria Rosato mette in guardia circa le possibili criticità che possono ostacolare la piena realizzazione di una sicurezza “integrata” e “partecipata”: gli operatori percepiscono le recenti riforme e iniziative non come segnali positivi di cambiamento, bensì come infelici risposte della classe politica alle istanze emergenti.

Dunque la sicurezza si politicizza? Subisce un processo di ideologizzazione come è accaduto con l’ordine pubblico? In effetti sicurezza e ordine pubblico, uniti nel modello istituzionale del Panopticon moderno, oggi sembrano scindersi, acuendo le difficoltà delle istituzioni pubbliche ad imporsi. In questo contesto la Polizia di Stato appare in mezzo al guado: da una parte la sopravvivenza di strutture della prima modernità, dall’altra l’affanno con cui una seconda modernità cerca di affermarsi. Solo una riforma complessiva della governance della sicurezza consentirà all’organizzazione (e all’intero sistema-Italia) di superare lo stallo.

 

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