Faccia squadrata e spigolosa, espressione da duro a tutti i costi. Provocatore, sbruffone, ladruncolo, teppista e taglieggiatore da quattro soldi. Si aggirava per le nostre strade della violenza credendo di essere nel Bronx o nel Queens. O in un ghetto di Brooklyn, pieno di faide tra bande affamate, crack e rapine a mano armata. Pensava di essere in un film di Spike Lee o in un gangster movie di Martin Scorsese, compagno di ventura dei goodfellas. Immaginava di arrivare al vertice come Scarface/Al Pacino, tra macchine di lusso, belle donne e montagne di dollari alte come il Vesuvio. Ma non andava mai oltre una Fiat Punto pezzottata, l’Annarella di turno e i dieci euro per un caffè, una bolletta e un pacchetto di Merit di contrabbando. Si vedeva grande e rispettato, camminava tronfio coi suoi Ray Ban fumè made in Forcella. Ma di sera, quando si ritrovava a letto da solo, si sentiva triste e disperato. Sognava ogni notte di cadere da un grattacielo e ad ogni piano che passava si ripeteva sempre: fin qui tutto bene. Non gli faceva paura la discesa, ma l’impatto con la terra, con l’asfalto sporco e rovente. Sapeva che stava giocando a fare il delinquente in una vita postdatata, in una fiction che non aveva un futuro, un copione. Un telefilm di serie b con attori scadenti. Di giorno in giorno s’inventava una storia improvvisando su vecchi temi. Fino al capitolo finale. Fino ad una morte improvvisa in un carcere di periferia. In un ospedale nel quale era controllato a vista anche mentre esalava l’ultimo respiro cercando il Crocifisso cogli occhi drogati dalle medicine. Anche mentre si sforzava di ricordare una mamma che non aveva mai avuto, ultimo folle desiderio prima della luce immensa. Amen.