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Raymond Antrobus: il suono dell’essere

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Poeta ed educatore, Raymond Antrobus (1986), nato ad Hackney, Londra, da madre inglese e padre giamaicano, con The Perseverance[1], edito da Lietocolle, con cura e traduzione di Giorgia Sensi, la prefazione di Kate Clanchy e la postfazione di Anna Maria Farabbi, vincitore in patria dei premi Rathbones Folio, e i Ted Hughes e Somerset Maugham Awards, esplora il suono dell’essere e la fatica di rintracciarlo, anche attraverso lo spirito di Laura Bridgman, Le ricette del dottor Marigold di Dickens e Helen Keller.

Essere, così, la domanda di una sola parola, che continua a guardare negli specchi. Come si può seguire la linea fertile del mondo? O anche frequentare la perdita, la sfocatura del tempo, la consegna della morte e la sopravvivenza: «Ted viveva tramite gli occhi. Ma dal ponte volgete gli occhi / alle colossali correnti. / Volgete gli occhi alle chiatte / che suggeriscono una geografia di nebbia».

Ma The Perseverance è anche il nome del pub in cui beveva il padre dell’autore, che nella raccolta trova il suo solido territorio. Un titolo stratificato[2], dove la perseveranza del viaggio del linguaggio amplifica i ricordi profondi, il potere della letteratura e le percezioni, la sordità come spazio, l’appartenenza del dizionario di un universo sommerso e arcaico, come se arrivasse dall’antichità di Babilonia (Raymond li chiama «echi barbuglianti»).

Kate Clanchy, nella prefazione, scrive:

 

«Antrobus era anche nato, sebbene la sua famiglia non l’avrebbe saputo per i successivi sei anni, con una grave sordità: c’era tutta una serie di suoni che lui non riusciva a sentire. Questo lo scoprì soltanto quando il bambino compì sei anni, e ce ne vollero molti altri di anni, fatti di apparecchi acustici e scuole speciali “ per insegnargli – come dice lui stesso – a parlare con la schiena dritta”, e fare di lui quel parlante articolato e quel performer carismatico nel mondo degli utenti che oggi conosciamo. […] The Perseverance è ricca dei doni di tutti questi retaggi».[3]

 

L’esplorazione dei segni è un indizio chiaro di poesia. Trovarsi nell’eco, originata dalla visita alla Sagrada Familia, è mettersi in ascolto, figurare il suo silenzio dorato: «Gaudì credeva nel suono sacro / e costruì una cattedrale che lo contenesse, / costringendo chi era dotato di udito ad alzarsi in piedi / come se la Sordità fosse una forma di Ateismo. / Chi direbbe di no a Dio? / Sebbene io non abbia udito / i decibel dorati degli angeli, / sono vissuto in un palazzo / silenzioso dove il campanello è luce / pulsante e io sono in grado di rispondere».

La poesia di Antrobus è un’affermazione ricca di retaggi antichi, scoperchia l’incanto inaudito, rincorre la bellezza sorgiva di ciò che è ai margini e l’incanto corporeo delle cose.

Una sorta di avamposto non refrattario che miscela la parola parlata e la prosa, «sestina, blank verse, verso libero, e perfino un redaction poem».[4]

La fatica della comunicazione, la redenzione dell’amore, la delicata gentilezza del testo che non scaglia ma porge, impone una lunga linea di orizzonte condiviso, che attraverso la mancanza o l’assenza, impara la rinascita delle cose, l’attesa del proprio mondo.

Non esiste separazione tra il poeta e l’educatore. Per Antrobus la bellezza della poesia è nella sua pronuncia di fronte al mondo contro il vuoto, una sillaba infinita di ricerca, la narrazione intensa di Samantha, donna giamaicana sorda al suo arrivo in Inghilterra

 

(«Il segno è la mia casa. Una casa comoda / con solo poche stanze da poter condividere. / Nessuno ha detto a mia madre che i sordi hanno una lingua. / nessuno che lei conosca sa come dirlo. / Lei sa che il fuoco è un Dio che non smette di gridare. / Lei sa che Giobbe non ha incolpato Dio per la vita che ha perduto / Io so che i sordi non sono perduti / ma di sicuro sono abbandonati»), una visiva percezione («Io vorrei essere la Luna, l’orso, perfino la pioggia. / Papà fa dire alla Luna qualcosa di diverso ogni sera / e ci sentiamo l’un l’altro, ci sentiamo davvero l’un l’altro. / Mentre Papà legge ad alta voce, io seguo il suo dito sulla pagina»):

 

«Ho lasciato la Terra in cerca di orbite più sonore, / un sistema solare dove lo spazio tra / una stella e un pianeta non è vuoto. Al mio posto / ho lasciato una barba bianca di rumore e molti / di voi non noteranno la differenza. Siamo / infatti lo stesso volume, tutti alla fine ci dissolviamo. / Ho lasciato la Terra in cerca di un Dio udibile».

I segni di Antrobus tendono dunque al loro significato. Si protendono verso il significato, manifestando un rinvenimento di tracce e di arie smarrite:

 

«Il suo cuore / gli si è rivoltato contro in una polleria / ha detto, il mio cuore si sta spaccando / e ha perso conoscenza sognando / sua madre in Giamaica / l’ha ripresa in ospedale, struggendosi / per quella donna, morta da vent’anni / il figlio gli fa visita e passano / mezz’ora a tenersi le mani / lui ha un ago nel braccio / sangue nel sacchetto della colostomia / chiede all’infermiera se può andare all’ufficio postale / per comprare una cartolina a sua figlia / ma il perdono non / ha indirizzo / Madge è la prima ragazza che baciato in Giamaica, / un vestito bianco a fiori, profumo di timo e d’estate / abita i suoi sogni d’ospedale / Madge non è l’infermiera che scioglie / analgesici nella sua acqua / lui non beve con gli occhi aperti / suo figlio accende la radio / è A Rainy Night in Georgia / suo figlio, una macchia / su una sedia di legno».

 

Anna Maria Farabbi, nella postfazione, afferma:

 

«The Perseverance porge la sua identità scolpendo intensamente a suon di canto. Qualificandosi al suo rintocco con uno spostamento d’aria. Proprio spostando l’aria da un segno scrittorio incisivo che mantiene nell’inchiostro la ventilazione orale dentro cui Antrobus rovescia tenerezze, risacche della propria memoria, urla di rivendicazione civile, presta la voce a bocche di sorellanza, flette riconoscenza a maestri che hanno irrorato i deserti della propria carestia esistenziale: nomi su nomi in ritratti e impronte digitali. A questa caratterialità stilistica, vanno aggiunte luci taglienti, nel senso letterale del termine, frustate luminose che fanno sanguinare retoriche certezze».[5]

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[1] Antrobus R., The Perseverance, cura e traduzione di Giorgia Sensi, prefazione di Kate Clanchy, postfazione di Anna Maria Farabbi, Lietocolle, Faloppio (Co) 2020.

[2] Sethi A., Raymond Antrobus: “In some ways, poetry is my first language”, interview, “The Guardian”, december 28, 2019.

[3] Clanchy K., Prefazione, in Antrobus R., cit, p.11.

[4] Id., cit., p.12.

[5] Farabbi A.M., Postfazione, in Antrobus R., cit.