North Dakota, 1823: una spedizione di caccia è attaccata dagli indiani; la sua guida Hugh Glass è straziata da un grizzly. Dato per morto, è tradito da colui che doveva proteggerlo.
Il film (USA, 16) è tratto da un romanzo (di Michael Punke) che narra degli stessi avvenimenti del fortunato: “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo” (USA, 72). Il regista, anche sceneggiatore (insieme a Mark L. Smith) e produttore, è il geniale messicano Alejandro Gonzàles Inarritu, Oscar 15 per “Birdman” (USA,14).
Il Western è tornato di moda: è l’epopea costitutiva degli Stati Uniti d’America. Ma l’approccio non è solo epico, considerando la stessa formazione del regista. Cioè la storia di “resistenza-ritorno-vendetta”, il sottogenere revenge –movie, è letta in una chiave che lo stesso Inarritu ha definito “metafisica” per il tipo di confronto con la natura, che è un personaggio attivo e presente: poderoso, infinito, incontrollabile; intensamente, immediatamente fisico; ma anche con la storia. Il che rende il film del tutto particolare.
Leonardo Di Caprio, che interpreta con forza commovente il revenant, diventa parte integrante della natura: ma anche dell’umanità di quei territori, avendo sposato una nativa, poi uccisa a freddo dai soldati USA, che “liberavano” i territori da colonizzare. Egli è solo: come una variante trascurabile di quell’universo.
Il film chiude con lo sguardo del protagonista verso la Macchina da Presa, verso di noi spettatori. Come se ci invitasse a ri-riflettere su tutto quanto abbiamo visto: all’insieme di valori e significati suggeriti dalla sua epopea, che hanno suscitato la nostra emotività. Inarritu sconvolge le leggi della sintassi spettacolare: ma prima le applica.