La nuova raccolta poetica di Roberto Mussapi (1952), La piuma del Simorgh (Mondadori), penetra nelle tele orientali alate attraverso una lontananza di riflessa bellezza e itinerario interiore, scoprendo la rifratta ricerca di sé, in una linea di commozione e concepimento che insegue la persuasione della rinascita e del solco intimo, trasformando la materia vivente in un frammento di particolare e universale, fluidità e istantanea, andata e ritorno, per ricevere il calore della pienezza annunciata e sospirata, attraverso una gioiosa e fulgida promessa, «ansimando e affannandoci / come bambini cercavamo il Simorgh, / inconsapevoli del suo segreto e il suo dono, / la vita, piena, che avevamo accanto» .
Il titolo ascrive l’opera di Mussapi nella zona di confine tra mito e realtà: si rifà all’inaccessibile creatura alata, in alcuni casi rappresentata come un rapace, in altri raffigurata come sparviero o cane-uccello, talora dalle sembianze antropomorfe, che ha il ruolo di psicopompo, mediando tra le forze del cielo e della terra. Il Simurg, il cui nome deriva dall’avestico Saena Meregha e poi attraverso il medio-persiano sēnmurw, possiede la conoscenza, ha il potere della purificazione e della fertilità: una divinità polisemica, dotata anche di qualità taumaturgiche. Posato con le sue quattro ali aranciate (e secondo Flaubert la lunga coda di Pavone), sulla Gaokerena, la mitica pianta Haoma nella mitografia iranica, che se mangiata ha proprietà guaritrici, conferisce immortalità e risuscita dalla morte, e da cui vengono generati i semi di tutte le piante selvatiche, il Simurg è il protagonista del poema persiano del XIII secolo “Il Verbo degli uccelli”, dove si narra di come tutti gli uccelli della terra decisero di andare in cerca dell’Uccello-cane mitologico; dopo molte difficoltà, rimasero solo in trenta per cercare la creatura, il cui nome significa proprio trenta, ma si accorsero che l’asprezza del viaggio li aveva purificati, trasformando loro stessi in Simurgh.
La metafora sembra riportare al processo della trasformazione di Jung, e a fare del mitico uccello l’emblema del principio di individuazione, favorendo una lettura cosmogonica patriarcale, in cui all’essere alato viene conferito potere sia maschile sia femminile, attribuendogli facoltà generatrici e inseminatrici, numerologiche e di elevazione spirituale, di bellezza e di purificazione. Tutte le qualità sembrano quindi confluire in un oggetto onnisciente in grado di annidarsi nel singolo uomo e di farne estensione di sé.
Scrive Roberto Galaverni: «Per individuare il baricentro della sua intenzione poetica è necessario guardare al contempo in due direzioni. Da una parte alla predilezione per i miti di fondazione o di rinascita, le vicende degli eroi, le favole di formazione o d’iniziazione, e così per il suo tema tra tutti fondamentale, quello del viaggio. Dall’altra, all’attrazione per il genere epico: la narrazione in versi alta se non sublime, il giro ampio del periodo, le improvvise contrazioni tragiche o drammatiche, il discorso poetico capace di raccontare con ritmo, solidità, pienezza, concretezza».
Il volo delle rinascite appartiene al tempo-fuoco che fa vivere e a cui appartiene la vita, laddove la notte lascia il segno di una permanenza che rigenera, «di una perseveranza dell’essere, della vita nella morte» (Giuseppe Conte), per trasformare i risvegli nelle cadute delle ombre, per sostare nella quiete muta che si svela e riconoscere «i segni, o l’annuncio, della rivelazione cristiana» (Alessandro Zaccuri):
«La luce non si attenua mai, si spegne. / Come l’uccello che conosciamo, per rinascere. / È un inganno credere che qualcosa passi dal tempo / in cui fu pieno, a una senescenza. / Non c’è intervallo nel fuoco, c’è spegnimento / perché le braci si riaccendano, tu ti riaccendi. / Non era quello che avevo appreso un tempo, / l’attenuazione della fiamma, il crepuscolo. / Non esiste un tempo intermedio, / tu passi e affoghi per rinascere, / questo è già scritto, nel fondo del mare, / impresso nelle cifre del corallo. / La vita che ti fece fu ambigua, e generosa, / tu le appartieni, sei tu che la fai vivere. / Ora che sta piovendo i passi si allontanano, / i tram sferragliano e sembra pioverà per sempre, / ma c’è una porta, mai vista o spalancata di colpo. / Tu credi che il buio si avvicini, ma già incombe / la notte e il sogno che ti prende e abbraccia. / Ognuno si culla in un sogno spesso debole e incerto / per la paura del mattino, del canto del gallo / quando le ombre cadono e tu viva / stai conducendo il globo al suo risveglio. / Non era quello che avevo appreso un tempo, / il lento divenire e la trasformazione del giorno / in una quiete muta, priva di stelle. / c’è solo, tu l’hai svelato, un incessante fuoco che rigenera».
Lo sguardo orientale di Mussapi origina un fulcro di viaggio che trattiene barbagli incendiati e iridi fulminee e guarda a Marco Polo e Coleridge, a Gawain e al corsaro Henry Morgan, affermando la decisività provvisoria e senza limiti, proclamando l’affioramento delle tracce e delle redini segrete, e percependo, infine, l’attimo puro delle iridi, in una fluida fuoriuscita dove c’è, come sostiene Loretto Rafanelli, «il risalire all’origine del bagliore e dell’ombra, il battito del respiro affannato dell’uomo e del suo volgersi a una clemenza suprema, c’è lo svelamento dell’inconoscibile, per quanto il poeta sappia che esiste una soglia che non si può superare», che si imprimono nell’anima: «Quando si spegne la luce prima del buio / c’è l’attimo puro dello spegnimento, / la luce che passa dal mondo esterno all’iride, / la scienza degli occhi, la forza dello sguardo / sono la prole di quel fulmineo tramonto, / lo leggi nei suoi occhi che hanno pianto, / mentre cammina al tuo fianco nella pioggia battente. […] La via per Xanadu è tracciata nel fondo, / sotto i tombini gonfi che gorgogliano, / passa nel buio e come divise ora unifica / i passi di chi si riempie le scarpe di pioggia e fango / e dell’altro che in un velo protegge i suoi occhi / dietro il vapore sui vetri opachi dell’autobus, / perso e smarrito tra gli altri ambulanti» (La via per Xanadu).
Ogni istante rapprende la contenuta e risorta ricomparsa di una radente porzione radiosa, «in qualche cosa di inusitato e strano / che un giorno vidi nel Carro, poi nei suoi occhi»: «Mi sono accorto all’improvviso che ogni giorno / io muoio e rinasco mille volte / ad ogni battito delle sue ciglia, il buio / eterno di quell’istante e la luce / gloriosa, piena del risveglio».
L’andamento epico fa tralucere la sostanza lirica attraverso le intense epifanie, le visioni mirabili, le originarie genesi di ogni rivelazione vivente a cui appartenere e a cui porgere cura: «Appartengo alla Genesi, ne custodisco / il primo vagito, lo sgomento dell’alba / l’angoscia del tramonto e il suo miracolante / stupore di orizzonte» .
Oppure la ferita della Bellezza, che accomuna il suo perpetuato brivido di gioia onirica e animata alla lacerazione rannicchiata che staziona davanti al San Carlo («So che mi hai visto, lui, non l’étoile, / non il ballerino più famoso del mondo / che pure ha votato a me la sua arte. / Lui, non l’étoile mi ha salvato, il morente»), all’infinita soglia del limite che medita (Il tallone di Achille), all’ora della nascita (Soglia infinita soglia) e all’ordito dell’essere che si svela, punteggiando la rotta delle strade affogate e migranti, come la poesia dedicata a Wole Soyinka.
Il divenire respira sugli incontri in un’ansia di transiti, di paesaggi salvi e di intimità svelata, come la scrittura-fibra della vita prenatale: «Ora è più facile udire, i respiranti / ti sono accanto nella foresta d’ombre / e pochi segni le vogliono per sempre / strette come quando prima di nascere / sorgeva dall’acqua il nostro fantasma».
Lo splendore ininterrotto delle vertigini di Bonnefoy, raggiunte e narrate nel granito memoriale degli appigli, delle nuotate paterne a Celle Ligure, come linda trama di un’esistenza che compone il mosaico personale, in una mappa di visione ricolma e memoria che sanguina, «lasciando intendere», come scrive Alessandro Zaccuri, «come solo da quella ferita possa germinare, di nuovo, la vera perla, il tesoro perfetto», («Quando vide nudo e vero e reale / il mondo che aveva visto Yves bambino. / Quello è il ricordo della mia vita, / pensava l’uomo, l’infanzia di Yves. / La mia sarà il ricordo di un altro, non so dove. / O lo sta già essendo, come la sua / che fece luce nell’età della pietra»), l’essenza del buio della tuffatrice che sposta il tempo, sospirando («Ma io volevo penetrare l’impenetrabile, / essere come ero stata nella mia origine»), il respiro delle fibre incollate alla parola di Marco Nereo Rotelli che genera sospensioni e sillabe esuli di lacrime, la riscrittura di Dickens avvertita e inscritta nel miracolo della rinascita bambina, il viso di Omar Galliani, il sogno orafo di Maurizio Demarchi nel trasmutato alfabeto di Venezia, la cui bellezza è raccontata nella notte che incobalta il nero, nella luce girovaga e specchiante di Santa Lucia, come corpo irradiante e il cigno che appare sul lago di Garda, specchiandosi e sfiorando l’acqua calma del cielo baciante, toccano il lembo illuminato della carne verso un approdo e un mormorio che si sporgono: «Il cigno nell’acqua di Garda era immobile / sospeso sulla sua stessa nuvola e carne / a tutti impalpabile, a ognuno inesistente, / non alle due dita dell’uomo che aveva conosciuto la carne / la vita che pulsava sotto la nube fluttuante».
Il racconto di Mussapi revisiona e riscrive, mantenendo la fedeltà al dettato del reale, impegnando l’itinerario della sperdutezza fragile dell’umano attraverso una illimitata capacità visionaria, in cammino verso il terso bagliore, nel sospetto «che esista solo una resurrezione incessante»: «Vi furono viaggi in cui mi persi, / dimenticando il mio nome, la meta del viaggio, / e da dove ero partito, e per che cosa. / ma ho trovato l’antidoto a quegli assalti del nulla. In un palazzo fastoso d’Occidente, un dipinto / e gli occhi di una donna mai visti così belli, / che si stavano come sciogliendo per il tempo, / velati dal passare dei secoli come lacrime».
La poematica riscrittura di canti, ballate e fiabe, che abitano e sfiorano la tessitura dei secoli, ritrovano, come afferma Loretto Rafanelli, «la ricerca di un filo che si snoda attraverso la fantasia e lo stupore bambinesco, per dirci dei gangli segreti dell’esistenza, in un rapporto armonioso con essa, che contempli anche una forma critica di serenità».
Il poemetto finale è dedicato, con tremore e a fior di labbra, a Maria, «regina nel suo regno di silenzio e ombra», che Dio nella creazione della realtà «fece ascendere, viva, alle stelle / e alla meraviglia celeste creata per sempre». L’inchino del poeta è all’intimità impenetrabile del suo sì libero all’Essere che si comunica e raggiunge, alla sua presenza materna e all’attraversamento della croce di Cristo, «cibo sognato per tutti i viventi», fino al sepolcro e all’abbraccio lieto della Resurrezione e dell’Ascensione, dove l’Eterno rinasce ancora: «Avrei voluto essere al suo posto, / lasciare il mio splendore abbagliante / e il grido e la pietra divelta per sempre / per essere accanto a lei, capire il mistero / di quel sorriso e quel pianto che ancora / nutrivano me e tutti gli altri angeli / d’orgoglio per avere dato soccorso / all’uomo fatto fango e nato polvere / bruciante nell’ossessione di risorgere, / mentre lei, non so in quale angolo, / accanto a una madia, in una zona d’ombra / adagio, in silenzio, riviveva / le doglie in cui lo aveva fatto rinascere».
Mussapi R., La piuma del Simorgh, Mondadori, Milano 2016, pp.101, Euro 18.