Print This Post

“Savage Grace” di Tom Kalin

La vicenda di Barbara, suo marito, suo figlio, dal ’46 al ’72. Lasciata sola, trova nell’amatissimo figlio il conforto alla sua instabilità: ma il suo rapporto con lui si complica fino al dramma. Tratto da un romanzo, il film è ispirato da una storia vera. Barbara entra nell’aristocrazia economica americana, grazie ad un matrimonio, che però si rivela infelice. La sua è una personalità fragile. Mentre all’esterno appare ricca di fascino, intelligente, elegante, all’apparenza perfettamente inserita nel milieu cui ha scelto di appartenere, in realtà è come se interpretasse un ruolo per cui non si sente tagliata: vive con una maschera. Gli unici punti di riferimento sembrano essere il marito e il figlio. In realtà è una complessa struttura relazionale assolutamente patologica. La ricerca disperata che porta la madre, all’interno di una relazione ambigua col figlio, fino ad un amplesso incestuoso, non ha nessuna giustificazione se non la grave forma di nevrosi che l’attanaglia e che li porta entrambi all’autodistruzione annunciata. La qualità del film sta nel delineare questo percorso con una padronanza e una chiarezza di descrizione davvero esemplari. Non indulge né sul lato scabroso né su quello melò: ci fa comprendere che l’atteggiamento della madre non è dettato da un’istanza di amour fou, ma dall’incapacità strutturale di trovare delle soluzioni al proprio malessere, senza porsi criticamente con se stessa. L’angoscia esistenziale si somma ad una superficialità sia caratteriale che intellettuale in un mix esplosivo che la porta al reperimento della soluzione “più facile” e apparentemente “indolore”, più a portata di mano, che è quella di cercarla all’interno del proprio superficiale perimetro di certezze, senza metterle in discussione. In realtà si esporta il proprio male, lo si fa diventare contagio che segna irreparabilmente, oltre al proprio, anche il destino della vittima: il figlio. Il film delinea questi passaggi con sovrana, compassata e asciutta linearità. L’assunto tematico è scabroso. Ma il film lo controlla in modi sia tematici che di stile. Scandisce il suo percorso con equilibrio tra i due protagonisti: la madre, prima al centro dell’attenzione, cede con semplicità il posto al protagonismo del figlio. Cosicché il circolo si chiude con ineluttabile e rigorosa necessità: il malessere e l’egoismo del padre, fanno cadere sul figlio, “anello debole” della relazione, il massimo peso dello sconvolgimento psichico. E’ lui la vittima designata. Il procedere narrativo affidato ad attori come la stupenda J.Moore e il giovane E.Redmayne è linguisticamente essenziale, ma attento e concentrato sul gioco d’insieme delle relazioni.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>