Seamus Heaney (1939), premio Nobel per la letteratura nel 1995, uno dei più importanti poeti viventi, scorre il suo dettato nelle traverse del mondo, donando l’esistente in una verità umana e ampia.
Si avvicina al mondo come una vocazione che rimane nelle cose, getta la sua lettura negli spartiti del reale, non teme di raccontare il versante doloroso dell’essere, dove si annida la freschezza del vivere, con la chiarezza di un’evidenza, con l’imprinting della realtà a cui l’io risponde, senza sbavature, senza fratture apparenti.
La poesia di Heaney si attesta a quel gemito del creato che riprende il cammino della propria nascita, rimanendo fedele alle cose. Ma come?
Sugli elementi minimi innanzitutto. Il senso del luogo, ossia uno spazio ben definito, visivo, tangibile, preciso: «Noi non abbiamo praterie/ che dividono alla sera un grande sole», o ancora: «La nostra terra non cintata/ è una torbiera che continua a incrostarsi tra gli sguardi del sole».
Scrive lo stesso Heaney: «penso che il processo sia una specie di incontro sonnambulo tra volontà e intelligenza maschili e un nodo d’immagini ed emozioni femminili. Credo che l’elemento femminile riguardi la materia d’Irlanda, e la tensione maschile derivi dall’essere coinvolto con la letteratura inglese. Parlo e scrivo in inglese. Insegno letteratura inglese, pubblico a Londra, ma la tradizione inglese in definitiva non è casa mia. Mi nutro anche da un’altra mammella».
Se Derek Walcott ha scritto dell’isola caraibica di St.Lucia, Les Murray del Queensland australiano, Seamus Heaney ha fatto della campagna nordirlandese una polarità vasta, ritrovando, come poesia che salva dal nulla, la dolcezza del gaelico e la ghisa espressiva anglosassone, fondendole in un unico circolo, in una tradizione protesa e sospesa.
La dimensione personale, minima, interiore, è l’altalena che coglie la storia, che ferma i paesaggi, che rinviene eroi – come Beowulf- a cui restituire l’allitterazione del presente. Il gesto ampio e verbale sul mondo.
Nell’appartenenza si situa la libertà. La sua propulsione poetica si innesta in un incrocio di linee e di identità. Heaney sosta sui grandi poeti: da Brodskij a Milosz, fino a Seferis, Ted Hughes, Rilke, T.S.Eliot e la antica classicità latina e medievale.
La realtà, che diventa materia epica, determina ascese, colora riparazioni (redress) al vissuto: «La terra cede. Il peso del cielo/ si solleva oltre Atlante come il coperchio di un bollitore. / Le chiavi di volta ballano, nulla torna a posto. / Cenere tellurica e spore di fuoco svaporano».
Ma le origini di Heaney non si piegano al sentimentalismo spicciolo o alla rievocazione ovvia. Sono un movimento corale di identità – e appartenenza- che, da un punto preciso del suo esistere (Glanmore Cottage), si irradia e germoglia nella realtà, circostante e memoriale: «straniero giunto/ in una casa» per trovare «abbastanza cielo / per tirare avanti».
La realtà, pertanto, diviene circolare; non perché insegua il tempo o il suo ritorno, ma perché riposa e fa rinascere il suo sguardo sulla materia, sulla leggerezza dell’istante, che vive, come scrive Luca Gerneri: “una levità simile a quella trovata da Constable in certi suoi studi di nuvole o negli appunti sempre dedicati alle nuvole nei diari dell’amatissimo Hopkins”.
È nel luogo che si compie la storia, lì accade il mondo. Il sipario dei paesaggi abbraccia il sipario della parola, offrendo libertà e dignità, come un segreto e un’intima sostanza fisica: «sempre aspettato le poesie …come corpi estratti da una torbiera».
La torba, composto di legna impregnata d’acqua che finirà per diventare carbone, diviene non solo approvvigionamento e sostentamento, con la susseguente impossibilità di coltivazione a larga scala, ma metafora di una preservazione di tutto nel cuore fradicio: «Con cura a fare tacche e fette, spalandosi le zolle/ Dietro le spalle, sempre più a fondo/ A cercare quella buona. Scavando.//Il freddo afrore di terriccio di patate, risucchio e stacco/Da torba in guazzo, secco taglio della lama/Nelle radici vive, mi si risvegliano in testa./Ma non ho vanga per seguire uomini come loro».
La Storia universale si sposa con la propria storia personale. L’umanità, che vive senza clamori, che impara il silenzio lavorando umilmente e che fa vibrare l’essere, è la scintilla del suo gesto poetico, il suo affresco puro e intenso.
Percorrere la memoria, come intimo segreto di esistenza, significa vedere la luce del passato sul presente, leggere anche nel dolore il linguaggio misterioso e sacro che reca splendore: «Tutto può accadere, le torri più alte/essere abbattute, chi sta in alto intimorito/ chi in basso riconsiderato. La Fortuna becco affilato/ s’avventa aria senza fiato strappando a uno la cresta/ posandola, sanguinante, su quello accanto».
Dopo il suo capolavoro North (1975), Veder cose (1991) rappresenta la propulsione di uno sguardo che cerca varchi, punti d’appoggio e nuvole accese di aria muta: «Amo l’aria muta. Ho fede negli opposti. / Gli anni passano e sto fermo perché vedo/ che quando l’uno lancia l’altro tira su,/ poi vice versa, senza cambiare parte».
La testimonianza, al proprio tempo, Heaney la offre investendo la sua libertà, il suo essere poeta che afferma il senso del luogo, la doppia tradizione, l’equilibrio. Lo ha fatto in District and Circle (2003) e in Human Chain (2010) (quest’ultimo contiene anche un tentativo di riscrittura e di avvicinamento al Pascoli de L’aquilone).
I suoi after-thoughts, ossia i “ripensamenti”come li ha definiti l’acutezza di Helen Vendler, una delle sue studiose più importanti, ri-generano situazioni e avvenimenti, come gli echi delle mura esplose della metropolitana di Londra o le incombenti minacce catastrofiche.
La catena umana di Heaney è una porta sul buio. Un sussurro di terra, un destino improvviso. “La metafisica è sempre terra: non è così? Quanto più è terra terra tanto più diventa metafisica, perché le cose di questo mondo e la loro interazione sono l’ultima frontiera della metafisica: sono il linguaggio in cui la materia si manifesta” (Josif Brodskij).