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Sergio Zavoli e l’infinito istante

NZOzavolisergio

Il nuovo testo di Sergio Zavoli, scrittore e giornalista ravennate, che chiude la trilogia, iniziata con L’orlo delle cose e proseguita con La parte in ombra (di cui ci siamo già occupati su queste pagine), si intitola L’infinito istante, pubblicato da Mondadori.

È un libro di cadenze lente e vorticose, uno scavo che trasuda pienezza e trasparenza.

Il ricordo rende vivo lo spazio di una immediatezza che, se da un lato coinvolge e commuove, dall’altro si riempie di tradizione, di pacificazione e proclama il quadro teso della voce, come annotava Carlo Bo: “Intento a dar voce alla sua maggiore vocazione, il poeta non si risparmia nella denuncia della parola virtuosa, suggestiva, ingannevole, e lo fa stringendo il dettato persino al di là di una “voglia di canto” su cui egli libera i registri migliori per ariosità e compiutezza”.

L’infinito istante di Zavoli si sofferma sulle stanze invernali e familiari, i casali, le coltri di neve, che non rifuggono mai il fardello della passato, ma tentano una zampata di gioia e di commozione.

È il tempo dell’attesa ciò che ci definisce, il tempo dell’arena memoriale come promessa di vita e struttura originale che a tutto resiste e che tutto trasforma.

Questo testo è un annuncio di ombre splendenti, la stanza interiore e quotidiana che convoca il mistero di un tema armonico e misterioso, laddove la tensione dell’istante, appunto, sembra dilatarsi verso il tempo dell’infinito, della sua sostanza, della sua vertigine.

L’istante è l’esperienza che riunisce memoria e densità, verso ciò per cui siamo fatti, verso ciò che permette il rendersi palese della stoffa di cui sono fatti i nostri bivi,  i nostri franchi margini.

La resistenza dell’uomo si mostra soprattutto nella incapacità di stare, di rimanere nell’istante, mentre il magma dell’esistere, con circostanze, spostamenti e deviazioni, fa affiorare con prepotenza la sua densità, quando si dilata verso l’infinito, quando si cura il suo frammento e il suo bagliore, quando infine, è nutrito dalla presenza delle creature – e qui ce ne sono diverse – che regalano la zampata di un attimo eterno: i neonati, i genitori, la pagina del presente.

È una vita piena, laddove anche il porto franco dell’anzianità, con la sua solitudine matura, fa affiorare un paesaggio di tensioni e di ultimità: «Non trovo più i secondi sulla vena/ del polso, persino il cuore è altrove».

Ma non c’è amarezza o rabbia di tempo dimenticata. Anzi il gesto poetico di Zavoli è leale verso il desiderio che ravviva, la sua natura, la posa delle cose nel tempo quando «dagli alberi albini discendeva l’autunno»: «Un’invecchiata pace guarda / quel granire dal cielo. / E mi riparo solo in ciò che accade».

Perché l’esistenza, il genio scaltro del vivere, è solo perché accade qui e ora, in una parola, perché av-viene.

Lì la sua forza, nonostante il magone e lo sgomento di quei giorni in cui «gli scarabei lucenti si avventarono/ contro la città. / poi la terra si mise come a urlare, / mi prendevo la testa tra le mani/ per non vedere il lampo/ che divideva i vivi dalla morte/ e altri ne aggiungeva/ al giorno dei defunti».

Nel confine dove si scambiano «pizzi bianchi di schiuma/ con le resine gialle del fogliame; / è accaduto anche a me di addormentarmi/ mentre l’ortica sale sulle rose, / e la lingua di un’alga/ insanguina le dita», il suo cuore è «nel vento come tante/ farfalle in cerca di un giardino/ senza bengala addosso», perché alla meta «si può andare solo a due a due».

Le luci antiche, i vetri della neve, la coltre dell’inverno che avvolge i muri, non impediscono di frugare nei nidi, nei luoghi in cui l’amarezza dell’assenza non tocca l’immunità nella vita che nasce e si rinnova verso il «piumare di seta».

Il «posto dove alzare gli aquiloni» o «i sogni appesi ai fili anche di notte» sono l’impronta nascosta e vitale di una gemma socchiusa, di una libertà che impone allo sguardo una sosta sulla materia dell’esistente che consegna miti risonanze, semine e nido di bisbigli.

Il dramma della vita è la percezione dell’istante, il dileguarsi di un tempo gravido di ombre.

Ma lo sguardo è una tensione d’amore che collega, e forse ritrova, la lingua accesa di una speranza imminente, che nonostante veda disgregazioni e distruzioni, si accora nel nitore di un canto dignitoso e alto, di un solfeggio di labbra, baciate di anni: «dovevamo incontrarci nel suo incendio, / ma quel giorno arrivò mentre i treni/ ai passaggi a livello già fischiavano/ un’ora spaesata».

Le luci dei luoghi con «il primo odore tiepido dell’ombra», da Ravenna a Rimini, Tuscania e Marecchia, fino a Trevignano e Monteporzio, toccano gli occhi come guardie, attraverso l’incanto di un’occhiata, di un passaggio e «scrutano/ la vana maestà del tempo, / quasi aspettando ancora le alabarde», ma poi «il cielo è nei cortili, / tutto torna a se stesso,/ persino i girasoli piegano la testa, / vedono finalmente dove sono».

È «la dorata chiarezza» delle cose, «il memorabile battito del cuore, e di orologio» e l’istante segnato dalla solennità del respiro, il chiarore del dono di un’attesa pronunciata, soffusa, avvinghiata «al giro vorticoso della terra», a scandire il sapore del giorno, per involarsi «in un mondo che corre a perdifiato».

Stare in quel perdifiato con la solenne qualità dell’istante è in finitudine del poco, è come accarezzare un viso sperduto, come il dono breve degli occhi: «La mia fede / non cola lungo i ceri, / non conosce il viola del martirio, / ma sarà pure un segno/ se sosto sulla soglia/ come le foglie contro gli scalini».

Ma Zavoli, in questa materia spessa e ricolma, accenna  un piccolo varco, l’indizio di una vita che si fa vita, per migrare «nella terra e seminagione,/ che rappresenti il pane/ della prima cena », perché «Il dono dell’abbaglio forse/ è incantarsi davanti a un sasso azzurro/ portato dalla piena, e stringerlo nel pugno/ come l’oro, e non importa/ dove sia l’ora».

SERGIO ZAVOLI

L’infinito istante

Mondadori, 2012, 121 pp., euro 15

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