Di quel ragazzino solo quello si notava: tre enormi buchi su ogni braccio. Mi impressionai a guardarlo, a guardarli. Non ne avevo mai visti così da vicino. E me li ritrovavo così, sbattuti in faccia, di fronte a me, in una metropolitana quasi deserta.Era una sera d’estate e il ragazzino indossava uno smanicato giallo e dei pantaloncini corti. Aveva la carnagione bianco latte, era smunto e aveva gli occhi stralunati. Si muoveva lentamente ma a scatti. Era rigido e tirato. Mentre ascoltavo musica cercando di non fissare troppo, lui chiacchierava con un altro tossico, più vecchio e più consumato e con due altri ragazzi evidentemente dello stesso giro. Non avevo paura, volevo solo guardare. Avevo appena finito di leggere Requiem per un sogno e avevo ancora in mente i tossicomani ritratti nel libro. Volevo vedere, capire. Abbassai il volume dell’mp3 per ascoltare i loro discorsi. Ma non sentivo niente. Non riuscivo a far altro che guardare quei buchi. Così veri, così vicini a me per la prima volta. Così reali. E speravo che il ragazzino disponesse le braccia in modo tale da permettermi una visuale ancora migliore. L’unico mio timore era che potessero accorgersene. Così guardavo di sfuggita, combattuta tra la voglia che scendessero alla mia stessa fermata e quella opposta. Era prevedibile che sarebbero scesi insieme a me… a Piazza Cavour, diretti alla Linea 2 della metro. Per poi raggiungere Piazza Garibaldi. Così fu. Ci seguimmo. Io seguii loro, tenendomi a distanza. Osservandoli da lontano. Finchè non li vidi sparire verso l’uscita della Stazione Centrale. Diretti verso la loro prossima dose. Diretti verso la loro unica ragione di vita.