Non c’è monnezza che tenga. Napoli, in primavera, è di una bellezza impareggiabile. E’ per questa bellezza che da secoli siamo disposti a patire stenti, soprusi e malgoverno. Ed è a questa bellezza che molti napoletani sacrificano carriere, possibilità di lavoro e di una vita tranquilla, lontano dalle sparatorie e dal fetore delle nostre strade. Ci droghiamo di sole, di cielo azzurro. Ci facciamo di pizze, sfogliatelle e caffè a regola d’arte. E questo ci appaga. Ci appaga perché, come ricorda un’antica canzone, anche se le cose dovessero andarci male, “basta ca ce sta ‘o sole e ca c’è rimasto ‘o mare…”. Ci appaga perché, in fondo, se siamo tristi, ci basta andare sulle tredici discese di Sant’Antonio o sul Vesuvio a quota 800, per ubriacarci col panorama che si presenta davanti. Forte. Violento nella sua magnificenza. Un’amante sensuale e procace che ti toglie il fiato. Ti prende, ti tira, ti abbraccia, ti ammalia…e tu lì, eccitato e stordito, confuso e vizioso. Chiedi ed ottieni e ne vuoi ancora. Anche se sai che pagherai. E pagherai presto, prestissimo. Anzi, mentre godi, già stai pagando. Perché credi di fottere, invece ti stanno fottendo. Ti stanno fottendo i papponi. Quelli che Napoli ce l’hanno in mano e ne approfittano. Lo sanno bene che non puoi starne senza e ti succhiano pure il sangue. Mentre ti perdi nel turbinio dei sensi, ti tolgono tutto. Lavoro, soldi, salute. Tu lo sai bene, ne sei cosciente, ma non ti opponi. Per una donna così, sopporti questo ed altro. Perché se te la tolgono, potresti anche morire. Lei per te è ossigeno. E allora diciamolo: noi napoletani dovremmo aver diritto a una pensione. Per nascita. La nostra è una sorta d’infermità totale. Una vera e propria malattia che ci costringe ad amare questa donna. Ma non tutti ne sono affetti. Quelle anime inaridite che tengono Napoli in schiavitù, no, loro non ne sono affette. Per questo, senza rimorsi, riescono a sfruttarla. E sfruttano noi che, per averla tra le braccia, siamo disposti a consegnare ogni bene nelle loro sudice mani.