Una coppia benestante di Teheran, logorata da anni di matrimonio e progetti divergenti. Simin chiede e ottiene la separazione dal marito Nader, che deve farsi carico, da solo, della cura di casa, figlia e padre, quest’ultimo affetto dal morbo di Alzheimer. Lo aiuta una badante, ferrea credente, madre, moglie di un marito disoccupato e incinta, condizione che la costringe, una mattina, a trascurare l’anziano. Ne deriva una lite, parole offensive, qualche spintone e la donna perde il bambino.
Il conflitto viene incanalato nel sistema penale iraniano: l’accusa a carico di Nader è di omicidio; a vagliare la vicenda è un giudice monocratico; nessun avvocato; l’onere della prova che spetta praticamente all’imputato.
A questo punto è opportuno mettere da parte il racconto (che si snoderà tra menzogne e accuse incrociate) per riflettere su quello che Asghar Farhadi, regista e scrittore del film, propone: un caso concreto di scontro di classe, rispetto al quale il tribunale funge solo apparentemente da arena, in quanto il vero scenario è costituito da una Teheran molto “occidentale” quanto a dinamiche sociali e famigliari, ma assai meno quando ad intervenire su di esse sono le istituzioni.
Orso d’oro a Berlino come miglior film e due d’argento per le interpretazioni, tutti meritati, da una storia senza le solite velleità documentaristiche; vera perché verosimile, moderna, universale, neorealista.