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Visitare i carcerati. L’impegno cristiano tra perdono responsabile e giustizia riparativa

La nuova Lettera pastorale del cardinale Crescenzio Sepe

Visitare i carcerati

L’impegno cristiano tra perdono responsabile e giustizia riparativa

Card. Crescenzio Sepe, arcivescovo metropolita di Napoli

Card. Crescenzio Sepe, arcivescovo metropolita di Napoli

È un dato di fatto che anche tra i vari settori e ambiti della vita della Chiesa il riferimento al mondo carcerario è quasi completamente assente, o meglio si considera come un settore di azione specifica e speciale, tanto da escludere il carcere e i carcerati dall’attenzione e dalla sensibilizzazione dei battezzati nei confronti di persone con le quali Gesù stesso si è identificato.

Molto spesso il ricorso al carcere come una “immagine” di chiusura, impossibilità, ristrettezza non aiuta a cogliere il senso proprio e profondo con il quale il Maestro ha inteso la realtà dei carcerati e il loro stato di isolamento socio-culturale, psicofisico, etico-religioso. A ben vedere, lo stesso dibattito contemporaneo, almeno da Cesare Beccaria (1764) in poi, continua a rilanciare la domanda cruciale sul senso delle pene e sulla condizione delle carceri, sottolineando la necessità dell’educazione «per prevenire i delitti».

La pena è una punizione o una medicina? Il carcere è un luogo di riabilitazione e di reinserimento sociale, oppure è una pattumiera dove le società perbeniste sotterrano gli scarti sociali? Perché il cristiano si preoccupa (o dovrebbe) di farsi prossimo dei carcerati, portando loro non solo la Parola di Dio, ma anche sostegni materiali e soccorsi relazionali?

Continuando la programmazione pastorale per l’Arcidiocesi di Napoli, il cardinale Crescenzio Sepe ha reso nota il 16 luglio 2019 (Festa della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo) l’ultima lettera pastorale dal titolo Visitare i carcerati (disponibile al sito internet della diocesi di Napoli: <http://www.chiesadinapoli.it/napoli/allegati/54328/Lettera%20Pastorale%20sett.%202019%20.pd). La sesta opera di misericordia corporale, esplicitamente citata nel racconto matteano del Giudizio universale, quando appunto Gesù ritornerà Re-Giudice, secondo il racconto presentato dall’evangelista Matteo, che presenta in modo sconvolgente, sicuramente non usuale, il profilo del cristiano, che deve essere nella sua ordinarietà segno dell’Amore straordinario di Dio, educato nella dimensione della giustizia divina, realmente umana, in quanto insegna a gestire i conflitti aborrendo la violenza.

Chi è il seguace di Cristo a partire dal monito del Vangelo matteano se non colui che pratica la giustizia vivendo la pace, sfama chi ha fame, dà da bere agli assetati, accoglie lo straniero, veste gli ignudi, presta soccorso e cure per gli ammalati, visita i carcerati?

Il cardinale Sepe ricorda che Gesù presenta un capovolgimento totale delle certezze formalistiche dei suoi tempi: «Su questa strada, passo dopo passo, anche noi stiamo sperimentando che gli ultimi sono la “vera carne di Cristo” e in loro concretamente Lo incontriamo. Gli ultimi sono per noi il criterio per riconoscere l’autenticità del nostro impegno di cristiani. Abbiamo compreso meglio che la comunione ecclesiale è in funzione della nostra missione e in essa trova la sua misura» (C. Sepe, Lettera pastorale Visitare i carcerati, § 1).

La Torah dono di libertà è diventata giogo pesante e asfissiante, perfino occasione per rimproverare e mortificare quelle persone in affanno, in un certo modo “inadempienti”. A ben vedere, la Legge è Dio stesso e con il capovolgimento operato dal discorso matteano del cosiddetto “Giudizio universale”, il Nazareno sconvolge le certezze degli astanti e modifica nel senso giusto lo sguardo strabico dei discepoli che ancora non hanno inteso il senso dell’opera della redenzione: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore e con tutta la tua anima (Dt 6,5) e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. E il secondo è simile ad esso: Amerai il prossimo tuo come te stesso (Lv 19,18). Da questi due comandamenti dipendono tutta la Torah e i Profeti» (Mt 22,34-40).

L’Arcivescovo di Napoli rammenta che la “visita ai carcerati” è un’opera di amore, gradita a Dio, anzi da Gesù particolarmente raccomandata: «Rifletteremo sulla situazione dei detenuti – scrive il Cardinale , sulla coscienza umana esposta ad errori e sbandamenti. Ci interrogheremo quindi su un’altra fragilità, quella etica, che, sebbene in forme diverse, accomuna anch’essa l’intera umanità. Neppure i santi erano immuni da carenze, difetti, manchevolezze. Molti di loro – forse perché più vicini alla verità dell’esistenza – si riconoscevano inadeguati, peccatori. A tutti la Scrittura ricorda: “Il giusto cade sette volte” (Pr 24,16). Pietro, il primo Papa, che conobbe Gesù da vicino, fu pure colui che lo rinnegò. Da allora, la Chiesa comprese di essere un mistero di santità e di debolezza insieme» (ibidem).

La missione stessa del Figlio di Dio è comunicazione di vita e di amore, cuore della rivelazione. È l’Amore trinitario che redime l’essere umano e lo salva dalle sue prigioni e limitazioni, dalla sofferenza del carcere, dall’asfissia del peccato, dalla chiusura dell’ignoto, dal narcisismo delle sue opere, dall’egoismo dell’autoconservazione, dalla solitudine della paura, dalla piccolezza dell’autoreferenzialità… Gesù rivelandosi “giudice” si proclama contestualmente re e messia e mostra ai discepoli che il senso della storia consiste nella capacità dei discepoli di suscitare la speranza, servendo la persona umana in ogni sua esigenza. Amministrare la giustizia non significa infliggere pene con lo scopo di vendetta. Nella logica cristiana, il percorso di riabilitazione di una persona detenuta è il vero scopo della pena in un orizzonte di perdono responsabile e di giustizia riparativa. L’arcivescovo di Napoli scrive: «Quelli rinchiusi nelle carceri, quasi sempre in celle inospitali e sovraffollate, con poca luce e scarsa igiene, impossibilitati a tessere quelle relazioni che danno senso alla vita, si sentono coperti dal generale disprezzo e avvertono un’imbarazzante vergogna, fin dal momento dell’arresto, quando tentano a malapena di nascondere il volto» (C. Sepe, Lettera pastorale Visitare i carcerati, § 2).

Se si pensa ai carcerati la mente non pensa. Sembra un paradosso. Chi non ha mai varcato la soglia di un carcere non può neanche ipotizzare il processo di disumanizzazione il cui inizio è già la privazione della libertà. Il carcerato è Gesù, ovvero egli ci insegna la prossimità anche per chi è da noi lontano o perfino ostile. Un parallelo possibile di questo discorso è senza dubbio la figura lucana del Samaritano (cfr. Lc 10,25-37), oggi più che mai segno testimoniale della logica dell’amore cristiano. Il Gesù lucano presenta la parabola non come un “paradosso”, ma come una possibilità. Se di possibilità si tratta, significa che anche una persona completamente estranea ad un contesto umano, nonostante la sua distanza culturale o ideologica, può farsi prossimo, semplicemente rompendo gli schemi esistenziali preconfezionati e rilanciati ogni qual volta si tratta di restare al balcone per guardare indifferenti una realtà, semplicemente passeggera… L’altro non è mai una incognita, ma è sempre un volto (cf. C. Sepe, Lettera pastorale Visitare i carcerati, § 3).

A ben vedere, l’esempio del Samaritano,definito per antonomasia buono, deve suscitare in noi alcuni cruenti interrogativi. Chi è il mio prossimo? Anche una persona affamata, assetata, sola, indigente, ignuda, carcerata è mio prossimo? Interrogativo sempre attuale come proposto da Gesù, finalizzato a suscitare in ogni suo discepolo una forte presa di coscienza: la fratellanza universale come aspetto essenziale della rivelazione. Osserva il cardinale che «solo chi è senza colpa – una situazione del tutto impossibile ad un essere umano – può farsi giudice di un altro uomo, anche se un codice religioso lo prevede. In realtà, soltanto Dio può giudicare in quel modo. Il suo giudizio, come si evince dal contesto, è però solo misericordia, offerta di perdono, nuova possibilità di vita» (ibidem).

Con tale “novità” Gesù dà inizio a un movimento di conversione del cuore, di cambiamento, ovvero un cambio di baricentro: il punto essenziale della vita dei suoi discepoli non è la propria vita, ma quella del prossimo. Ciò significa scoprire l’umiltà come elemento essenziale del discepolo-missionario, sempre lontano dal pericolo dell’autoreferenzialità. «Se la giustizia è un’alta istanza di civiltà – continua il cardinale Sepe –, il perdono ha qualcosa di divino. Per questo è capace di rigenerare vita e di rifondare i rapporti umani. Perdonare è verbo infinito. “Quante volte dovrò perdonare al mio fratello”? chiese Pietro al suo Maestro. “Non sette volte, ma settanta volte sette” (Mt 18,21 ss) fu la risposta. Gesù stesso, coperto dagli insulti dei carnefici, tradito dagli stessi amici, lo testimoniò sul legno della croce: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. Perdonare è un verbo che solo Dio sa e può coniugare. E noi, se sostenuti dalla sua Grazia».

Gesù presenta un modello possibile per vivere una dimensione responsabile dell’esistenza, proiettata in modo consapevole nel tempo e nello spazio. Se la responsabilità è un principio cardine anche per l’etica di un laico come Hans Jonas, nell’era della tecnologia digitale, il cristiano dovrebbe adoperarsi per umanizzare ogni settore dell’esistenza, testimoniando la cura-per-la-persona in modo significativo ed esplicito senza compromessi, soprattutto non lasciando margini di spazio per contrattare i valori, anzi sottolineando con fermezza quei valori non affatto negoziabili.

La parabola del Samaritano ci introduce nel presente della realtà (nonostante sia circostanziata da elementi ed aspetti coevi alla narrazione). Una realtà fatta di situazioni contingenti che incrocia la profezia del futuro. Non a caso Paul Ricoeur qualche anno fa ha riletto questa parabola insieme alla narrazione del Giudizio universale di Matteo. Gesù non evoca nomi, titoli, situazioni. Il Maestro narra la storia di incontri, incontri che vorrebbe significativi, determinati per la vita. Sono incontri tra anonimi, tra sconosciuti, i quali si riscoprono fratelli non nemici.

Ogni battezzato è responsabile della missione affidata da Cristo ai suoi discepoli. La missione comporta anche la visita ai carcerati. Nell’invito all’evangelizzazione, il Nazareno comprende necessariamente l’esodo dalle solitudini esistenziali. Ciò significa per la comunità ecclesiale mettersi in una mobilitazione pastorale in senso missionario in qualsiasi parte del mondo vi sia una comunità credente, da un lato, e donne e uomini, dall’altro, in attesa di essere raggiunti dal messaggio vitalizzante del Vangelo di Gesù Cristo, soprattutto in un contesto largamente di oblio e di morte come il carcere.

Se egli si identifica con tutti quelli da lui indicati come piccoli, e include i carcerati, evidentemente sta insegnando ai discepoli a concepire la vita in un’ottica teologale, che salda fede-speranza-amore. Una esistenza, quindi, in grado di “mostrare” al “mondo” l’essenza della redenzione, come vita-in-Dio. I carcerati, nella condizione limite in cui si trovano, sono amati da Dio perché bisognosi di misericordia, sovente inariditi in termini di amore, isolati dalla società. Ecco il motivo che porta l’arcivescovo di Napoli a richiamare l’attenzione di tutti sulla condizione delle carceri e dei carcerati, proponendo una costatazione e rilanciando un interrogativo:“La prigione non salva nessuno”. Scuola di delinquenza o profezia di riscatto?  (cf. § 4).

I carcerati, o meglio le persone sottoposte alla restrizione della libertà personale, e le “carceri” intese come luogo di sofferto isolamento, sono il fuoco dell’attenzione dei cristiani, se il Giudizio universale attende tutti, se la giustizia divina ha come criterio la misericordia. Ogni carcerato è quindi il prossimo che deve essere visitato, amato, aiutato, secondo l’esempio del Samaritano.

La logica capovolta di Cristo invita a guardare i malfattori e le vittime con gli stessi occhi. È un discorso quasi paradossale, o meglio profetico come vuole esserlo la teologia pastorale a servizio di una prassi ecclesiale sempre pronta al rinnovamento della missione. La novità perenne della presenza e dell’azione della Chiesa nel mondo è la linfa della Parola di Dio, l’unica forza capace di de-centrare gli scopi della missione dagli operatori agli interessi di Dio il cui comando è: «Io, il Signore, ti ho chiamato per aprire gli occhi dei ciechi, per far uscire dal carcere i prigionieri e dalle prigioni quelli che abitano nelle tenebre» (Is 42,6-7).

In carcere c’è la Chiesa, ricorda il cardinale Sepe. Ma questa tale espressione appare paradossale. Se consideriamo i carcerati fratelli (molti battezzati) in stato di bisogno materiale e spirituale, riusciremmo ad allontanare l’insidioso pericolo di isolare queste persone stigmatizzandole con il loro errore. L’identificazione di Gesù con ogni carcerato invita i discepoli al superamento del pregiudizio, vera causa della morte psicologica e sociale delle persone che delinquono. L’Arcivescovo propone anche alcuni obiettivi per rendere concretamente sperimentabile l’amore del cristiano per ogni situazione umana, in questo carso per i carcerati in una logica di perdono responsabile e di giustizia riparativa. Scrive Sepe: «Per rendere concreto l’apporto che possiamo offrire a chi è detenuto, sollecito ogni parrocchia, ogni comunità ecclesiale ad elaborare una proposta pastorale di ampio respiro che tenda a formare anzitutto la propria gente e gli eventuali operatori mediante percorsi di sensibilizzazione per un orizzonte umano poco conosciuto e quasi sempre trascurato. Ogni progetto tenga conto, tra l’altro, delle seguenti imprescindibili priorità:

  • Formare la comunità al perdono e alla riconciliazione.
  • Provvedere ad un’anagrafe dei reclusi della propria zona pastorale.
  • Adottare un detenuto e la sua famiglia anche di un’altra parrocchia.
  • Coinvolgere i detenuti stessi nell’attività di evangelizzazione e di sostegno.
  • Sviluppare un piano decanale d’insieme con istituzioni, associazioni, privati disponibili» (§7).

I carcerati sono considerati di fatto scarti sociali e come tali non sono degni di ri-scatto. La chiesa è la comunità di peccatori perdonanti, non di discepoli perfetti. Lo rammenta anche l’autore della Lettera agli Ebrei (13,3): «Ricordatevi dei carcerati, come se foste in carcere con loro; e di quelli che sono maltrattati, come se anche voi lo foste!». Così la Chiesa di Napoli, comunità di perdonati, va incontro ai fratelli in carcere, bisognosi di aiuto e sostegno per costruire una nuova logica della giustizia, una giustizia riparativa, ovvero della giustizia della vita (una “giustizia giusta”), secondo l’insegnamento del Vangelo.