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Vivian Lamarque e la dialogata assenza

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Il nuovo lavoro di Vivian Lamarque (1946), Madre d’inverno, edito da Mondadori, riapre, scalzando l’abbandono, il suono cadenzato del dolore. Ma non è solo la scena di una riparazione estetica e di un groviglio trascritto a ritmare il piano della recitazione autobiografica, bensì l’esito di una brevità dilatata e di un lutto scoperchiato, e visto non attraverso una dinamica lamentosa bensì in una rielaborazione memoriale e dettagliata che si fa narrazione e «dialogo con gli assenti», afferma Roberto Galaverni, «che diventa interrogazione sul tempo e sulla consistenza della vita […] radicato in quella tensione tra memoria e dimenticanza che ha a che vedere con l’idea stessa della poesia», e, continua Galaverni, «anche al cospetto delle situazioni più dolorose il contrasto consueto tra patetico e giocoso, tra durezza e cantabilità, tende qui ad attenuarsi, come se i due estremi convergessero reciprocamente in un ideale punto d’incontro tra infanzia e responsabilità. È come se la Lamarque fosse ora in grado di guardare con più fermezza agli ammanchi e agli acquisti della propria storia, senza troppo bisogno di aggirarla, fuggirla o redimerla attraverso la verità e l’artificio della regressione (l’una e l’altro insieme, inevitabilmente). La pratica stessa della poesia molto più che sul paradosso, sul contrasto tra gravità e leggerezza, viene intesa ora, come detto, sulla tessitura di una possibile memoria, individuale sì, ma anche della specie».

Tale tessitura sospende e recita il dramma personale materno, visto in una percezione sì di malattia e di morte, ma dettagliato attraverso la trasformazione di ogni oggetto in sorpresa, come sostiene Nicola Gardini, «senza toglierle la sua sostanza di cosa già vista o incontrata attraverso i sensi e i discorsi di tutti i giorni, riscattando il brutto, adornando il vieto e il comune, trasfigurando perfino un sacchetto di urina in qualche cosa di ammirevole, secondo quella attitudine all’incanto che avvicina la Lamarque a una Dickinson o perfino a Baudelaire».

Il territorio della madre perduta diviene il raggrumato ricordo di luce che rimanda alla fonte primigenia dell’essere, laddove questo strano ascolto originario, sebbene appartenga a un tracimato regno perduto, libera la materia poetica in una dismisura che assomiglia all’anima e alla vertigine stuporosa dell’essere, ad una sorta di appartenenza metrica che è cadenza di oblio e recupero, ascolto e riproduzione di suono, odore, oggetto e vitalità semantica.

Vivian Lamarque ci testimonia la leggerezza della profondità, facendo baluginare, senza vischiosità irrimediabile, l’amarezza, l’attesa, la propulsiva giocosità dei paradossi, la lunga trama di uno scialo imperdonabile. Bianca Garavelli, infatti, commenta:

«Ma la morte non porta via tutto. Il viaggio della vita assume la forma di avvicinamento al proprio inizio, alla parte più inconsapevole di sé, con la quale affrontare l’ignoto percorso vedendone il lato amichevole. Per questo il racconto della perdita definitiva è all’inizio, ma dopo di esso riaffiorano ricordi sorprendenti, che permettono a noi, lettori che credevamo di conoscere l’autrice, di avvicinarci di più. […] La poesia per Vivian Lamarque è dunque un esercizio per descrivere, per raccontare, per ricordare. Ma è anche il suo contrario: è un esercizio per dimenticare, per affinare l’arte di svanire a poco a poco dal mondo, o almeno di allontanarsi con discrezione dalle zone più affollate, dove la calca potrebbe diventare insostenibile. […] Per questo la sua poesia è angelica e ironica, è in grado di proporre tristezza e tragedia con la delicatezza di un dono».

È la madre di origine recuperata, è la madre adottiva, è la propria sostanza di madre a congiungersi nella genesi pascoliana della propria appartenenza. Tutto il suo romanzo familiare prolunga il corso di una personale mitografia perduta, di un ricordo deciso e lucido poggiato sullo sguardo, breve come il cordolo del fiato che porge il suo nome al compito di se stessi verso il mondo: «Eppure in dono ce ne avevano assegnati tanti / così tanti, milioni di milioni di giorni / da sgranare, granaio colmo fino all’orlo / color oro, ogni chicco un giorno / con la sua alba il suo mezzogiorno / e serate e stellate e lune, più infinitesimali / sottochicchi di ore e ore  e minuti, / scialo imperdonabile lasciarli scivolare / tutti uno ad uno dalle dita dove come? / scivolati dove tutti quei cieli tutto / quell’oro? Svanito in un batter / di ciglia tanto tesoro?».

Le istantanee tramontate e vivide delle poesie ospedaliere, che toccano le aperture del testo, riportano frammenti scolpiti e non obliati, fin dentro le viscere. È l’esito indiziato di una trasparenza leggera che guardando la madre in un letto di ospedale, non tralascia neppure il comico. Per abitare la realtà, bisogna riunire pianto e riso in un’unica sillaba respirata e sopravvivente: «affacciata alla sponda del tuo letto d’ospedale / la visione della candida collina – del lenzuolo / che faticosi respiri fanno sollevare / abbassare sollevare, nella bianca camicia / un ricamo trasale, trema un bottone / di madreperla in precario equilibrio / quieto luccica il termometro sul comodino posato e luccica / come un’aurora un tramonto il rosa / della flebo e nel sacchetto l’oro / dell’urina […]».

Le descrizioni di Lamarque amano lo sdoppiamento di discendenza e il respiro che posiziona il dolore visitato: il frammento decreta la pagina, ma è un frammento che visita per redimere l’oblio e chiudere il conto con l’orfanità.

Ed ecco che qui la patina sottile riposiziona il dolore per farlo quasi impallidire, lo descrive per lasciarlo nel fondo e dialogare con l’assenza per non farla morire. Questa delicata sottigliezza sintattica ed espressiva riscopre il mondo e le sue angolazioni, come i gatti di ospedale. Sembrano episodi in ombra, sono, invece, la lucida esagerazione di una sovrabbondanza che stanzia il suo fondo disarmato: «Ti dicevo buonanotte e uscendo / passavo dalla casa dei gatti / con i tuoi avanzi mi venivano / incontro a frotte per niente magri / direi, uno diffidente e serio come / Ignazio, altri avviando già da lontano / il motorino delle fusa, poi dalle aiuole / d’entrata e d0uscita coglievo semi / per il mio balcone, di quei giorni / minima consolazione».

Gli ultimi mesi di vita della sua madre adottiva segnano la cifra dettagliata e millesima, il ritorno e l’epigrafe rovesciata di una rifinitura minima che filtra nei versi «il sentimento smagato della piccola creatura con gli occhi sgranati sul mondo, una posizione pre-linguistica, come dire: eccomi qui, nonostante tutto, nel frastuono della storia e delle umane vicende, a incidere la mia presenza sul tronco dell’albero» (Eraldo Affinati).

L’orlo “smagato” di Vivian Lamarque riscopre la copertura rosata dei balconi, la pericolosa sirena del passato che incide il suo quadro di mente e stanza, il gesto lontano dell’assenza, l’eleganza delle finestre malchiuse, la terra verso il mare dove intingere il pennino verso il futuro, l’inverno bianco e fiorito di splendore specchiato che copre portando via tutto.

Ma non c’è furioso sperpero di dimenticanza o annullamento in quest’opera: il dolore è un bastione di un disfatto riflesso che serve, ancora una volta, ad annunciare il silenzio loquace di ciò che accade, come la poetessa stessa rivela a Ida Bozzi: «c’è la città, ci sono le bancarelle del mercato, i postini con le loro borse […] C’è persino un dentista — spiega la poetessa —, c’è un Compro Oro, una A112 e i moduli Aci, ci sono le case, le poltrone preferite, ci sono gli aghi e i fili del cucire («tutto il contrario del morire»), e di nuovo il Tempo che passa («scivolati dove tutti quei cieli / tutto quell’oro?»). Un altro tema centrale è quello dell’adozione, posso dire che Milano è la mia città d’adozione non tanto per dire, in senso letterale».

È da questa particolare condensazione di istanti oggettuali, di attese ricercate e di documenti, che la quotidianità si riporta ad una ferita feritoia di luce, al presidio della calligrafia come ricordo, al piumato respiro dei pappagalli, ai fantasmi dei tagli.

Il suo gesto si confronta con questa concretata bellezza di nascita esatta. La madre rappresenta la vertigine di un così sia ricaduto sulla vita come manna: «Da casa tua si usciva sempre tutti / a mani piene. È ancora così, scendo / le scale carica della tua casa da svuotare / un grumo di sangue alla volta, nodi / alla gola, come ti piaceva farti saccheggiare. / P.S. e ancora mi dai: poesie su poesie / mi piovono dal tuo cielo, manna / di mamma», o ancora, come il ricordo succoso dell’anguria che richiama la pienezza al suo compito e allo stupore riunito del reale che ama: «La tua meraviglia per quell’anguria / che incredibile ti era spuntata / sul balcone, nel vaso dei ciclamini. / Si era prima pensato a un seme / di zucchina prestato dal vento / ma poi che strana che rotonda / e con quelle righe verticali / possibile? Al poco sole di Milano? / Cresceva e cresceva, mentre tu ti facevi / piccola e leggera, lei si faceva grande / e pesante, poco prima di andare all’ospedale / l’hai voluta tagliare, col batticuore / la temevi bianca, malata dentro / no era proprio rosso cuore anzi rosso / bandiera come un’anguria vera / e abbastanza dolce, non dico squisita. / L’ultima sorpresa bella per te dalla vita».

In un’altra sezione del libro (Madre l’altra), scrive Nicola Bultrini, la madre «e la quasi madre si incontrano dunque nella vita della poetessa, ognuna con un suo registro di dolore, che la figlia raccoglie per esigenza naturale, come fosse l’unica cosa possibile».

Questa unione materna permette alla poesia di lambire la segreta appartenenza e la domanda elementare come caduta («Chi curava il giardino la trovò / in camicia da notte, accanto / al letto, il lunedì presto. Era accaduto / che giorno? era sera o mattino? salendo / o discendendo il letto? almeno la vegliarono / cassettone e comodino? e dalla finestra / la vide l’albero cadere? E fu avvertito / l’adottato gatto del vicino? le disse / addio un tramonto o l’alba del mattino? ») e incontro spaesato, svoltosi a diciannove anni, di lei che accende la sigaretta dalla parte del filtro e delle fotografie esibite da riguardare un’altra volta.

L’assenza rammendata è una sospensione lasciata su un biglietto, una piccola preghiera, “quasi” raccolta in un destituito richiamo color viola: «Ti piaceva il colore viola / e ora che ho quasi la tua età / di allora, anche a me, purchè / tenue chiaro scolorito non come / quei tramonti viola infuocati / esagerati, meglio quel poco / che ne resta dopo, prima di / finire, insomma un quasi / viola sia, quasi madre mia».

Ma se davvero il ricordo si prodiga nell’oblio della sera della vita, sembra che alla pagina venga chiesto non solo di fare memoria, ma di traslare la dimenticanza in un muto mondo addormentato, «Verso la sera della vita / nomi e cognomi li dimentichiamo / per esercitarci a quel muto / mondo addormentato / dove -forse- nessuno chiama / nè è chiamato».

L’annebbiamento rinominato che riscopre nascite di foglie e prati indicibili («Sempre più affollata l’avanzata / dei nomi che scordiamo ci escono / dal cuore della mente / è un’avanzata-ritirata, di chi / la resa? chi abbandona il campo / la partita? comincia così la resa / della vita? più facile svanire / dalla mente nomi che l’ultimo / respiro dei polmoni? svanisce / il nome di quel tale e di quel film / tanto che importa? il nome / che ti ostini a voler ricordare / che differenza può fare / prima dell’andare? Anche i fiori / del prato non sanno dire prato»), soggiorna negli allungamenti dell’esistenza, stordendo ogni crudezza raccolta, ricordando il non avvenuto per «ricavarne il netto, il cuore / puro del ricordo, dell’affetto».

Il ritmo vivente della realtà, che lotta con la morte, si chiede il mistero delle cose che scompiglia gli stracci o la polvere quieta dei mobili («Morti ma come vi hanno messi? / divisi per millennio? per secolo? / per causa di decesso? per precocità? / o siete tutti in disordine come stracci / là? o siete polvere quieta come di mobili? / siete grigi? o d’argento? / siete una polvere bella? sì?»), riporta il lungo percorso dei passi, le luci mancate, la febbre, le notti leopardiane e il sonno racchiuso di Pascoli, dove tutto si addormenta e dorme.

Le nervature di Vivian Lamarque raccolgono, allora, questa eredità, dove la conversazione e l’origine del pianto sfrondano la poesia di lame accecanti e di abbracci di nebbia: «Come lungodegente dormiva il cielo / un infinito letto confinante con l’est / e il sud del niente, un bianco letto / con zero amanti dentro, immacolate / le lenzuola, nessuno a nessuno diceva / buonanotte mai».

Queste soste dedicate, che scoprono e sfilano ritratti (gli antenati, il marito, la figlia Miryam, l’amata Szymborska), sembrano tracciare confini netti alle veglie, agli incendi, ai postini e alle rose, alle targhe, alle suture-cicatrici splendenti, «là cuciti e ricuciti / chi all’addome all’anca alla gola / chi al ventre alla mano chi sul petto  / proprio dove sotto / gli batte il cuore» e infine alla fibra di gioia e dolore, lungo il fiume: «fare anima cos’è? Le chiedevo allora, ora / lo so cos’è, è tante cose, anche camminare / tra oriente e occidente, un po’ facendo uso / di gioia e un po’ di dolore, un po’ di gambe / e un po’ di pensiero, un poco guardando alla terra / e un poco al cielo».

Ma dinanzi a questa sproporzione cosa rimane della poesia? Come può essa fronteggiare la l’eccesso del dolore che si appropria dell’anima clandestina?. La poesia di Vivian Lamarque è, innanzitutto, coinquilina, scrive in punta di vita, cancella male gli errori. Ma poi distende la rarità delle cuciture e dei nodi, dispone i suoni dell’esistere in una lenta nevicata, come tutte le cose che affiorano, si spostano, finiscono nell’inverno, ma lasciano la spessa sproporzione del tempo indicibile e di ciò a cui la vita richiama.

Lamarque V., Madre d’inverno, Mondadori, Milano 2016, pp.138, Euro 19.

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